Domenico Sigalini – presidente del COP
La precarietà e l’esubero sono due grossi problemi che oggi si affacciano alla vita di un giovane lavoratore. Il primo è affrontabile con un cambiamento di mentalità e con una seria educazione professionale, il secondo esige un modo diverso di pensare la società e quindi di rifarsi a principi più alti di quelli che tentano di metterci d’accordo su interessi comuni. Precarietà è ricerca, è mettere alla prova le proprie qualità e la capacità di adattamento; precarietà è cambiare ambiente e poter fare utili confronti; precarietà è farsi un’esperienza utile di rapporti con varie persone, con il datore e i compagni di lavoro, che cambiano continuamente; precarietà è dare corpo a progetti e non pagare eccessivamente se risultano sbagliati o deboli: si può ricominciare di nuovo in altri contesti e con altre condizioni; precarietà è star sospesi nella vita e continuamente rimandare le decisioni che si fanno fatica a prendere. Precarietà però è anche sentirsi di nessuno, essere usato con finanziamenti promozionali per una migliore qualificazione e non vederne nemmeno l’ombra. Precarietà è non riuscire a mettere radici, è non poter avere uno stipendio fisso e quindi il mutuo per affrontare le spese necessarie se si vuol mettere su casa. Precarietà è essere preparati e qualificati a fare qualcosa di bello e che piace, ma adattarsi per troppo tempo a vivere di rimedi. Precarietà è continuare a rimandare le scelte fondamentali della vita o per lo meno avere una copertura ufficiale per camuffare l’incapacità di scegliere la propria strada. E se si vive un rapporto di coppia, i problemi sono moltiplicati per due e sicuramente non sono risolti contemporaneamente.
La prima scelta da fare è di non fingere che i problemi non ci siano, ma sapere che si devono affrontare direttamente.
La seconda scelta da fare è costruire una nuova solidarietà. La tentazione di farsi i fatti propri, di sfruttare le occasioni per fare sgambetti agli altri, di insinuarsi nelle debolezze degli altri per costruirsi il proprio piedestallo, deve scontrarsi con nuove capacità di condivisione, di aiuto vicendevole, di amicizia che pure costa e si paga.
E ancora, occorre allargare l’orizzonte al mondo intero. Siamo cittadini del mondo, anche se abitanti di un quartiere o di un paese. Questo esige che ogni giovane diventi un mago delle relazioni. Dove mi porta il mio lavoro, là ci sono, con la mia voglia di vivere, la mia creatività, la mia fede, il mio carattere, la mia giovinezza, la mia capacità di pace e di convivenza.
L’altro discorso da affrontare è quello dell’esubero, che, come spada di Damocle, pende sulle giovani generazioni. Essere in esubero significa essere in soprannumero, inutile, indipendentemente dai bisogni e dagli usi che fissano lo standard dell’utile o dell’indispensabile. Esubero è nello stesso campo semantico di scarto, rifiuto, prodotto di risulta, pattume, immondizia. Ora non siamo troppo lontani dal vero se pensiamo che i giovani delle ultime generazioni siano tenuti in questo conto. Hanno ottime ragioni per essere depressi. Così non solo non hanno lavoro, ma perdono progetti, punti di riferimento, spogliati della dignità di lavoratori, dell’autostima, del senso di essere utili e di avere un ruolo nella società.
Quale è allora la prospettiva? Quando l’uomo si fa domande di senso, domande, cioè, di orizzonte, se il suo orizzonte è chiuso, le risposte saranno strette come pareti. Dirà tutto della parete senza sospettare che l’orizzonte è enormemente più vasto. È così dell’uomo quando lavora e se ne domanda il senso. Spesso, l’orizzonte è talmente chiuso che il lavoro equivale solo a guadagno, a fatica inutile e inevitabile, a lotta e sopraffazione, a schiavitù, strumentalizzazione e maledizione. Il lavoro è invece il luogo in cui incontri Dio e con lui vivi la storia del mondo. Il lavoro è incontro con altre persone, fatto di dialogo, contrapposizione, tensione, ricerca di intesa, collaborazione e solidarietà. Nel lavoro si investe la vita, la si dona agli altri. Il lavoro è sofferenza, fatica, è vita dura, spesso consumazione nel dolore, è la necessaria doglia del parto per crescere. Il lavoro è opera di liberazione dell’umanità dalla fame, dalla miseria, dall’inedia. Il lavoro è il luogo in cui si stabiliscono le leggi di comportamento che possono favorire la giustizia, la solidarietà. Il lavoro è anche luogo segnato dal peccato, dallo sfruttamento e dal disprezzo della dignità delle persone; è luogo in cui talvolta si scatena l’egoismo e l’indifferenza, il sopruso e l’ingiustizia, spesso anche la morte colpevole, non frutto del caso. Il lavoro, prima di essere un dovere, è luogo di grande dignità e si porta dentro ideali grandi. Io immagino che le nostre scuole di formazione professionale possano offrire il meglio ai nostri ragazzi della propria esperienza in questo campo. I giovani non dovranno andare nei luoghi di lavoro solo per capire e sperimentare tecniche, ma anche per immergersi in una cultura e in un mondo che ha valori e stili propri, obiettivi e scelte di profonda umanità, ragioni di speranza cristiana.
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