Maurizio Patriciello – parroco, parrocchia San Paolo Apostolo in Caivano
«Andrea incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia…” e lo condusse da Gesù». Andrea condivide con suo fratello l’incontro con colui che gli trasformerà la vita. Erano le quattro del pomeriggio. Che cosa si dissero, che cosa gli chiese, quali sensazioni avesse avuto non lo sappiamo, ma lo possiamo immaginare. Ci sono date, situazioni, voci, odori, colori che restano incisi nella nostra memoria per la loro importanza. In quale giorno della settimana sono stato ordinato sacerdote? Dove? Da chi? Andrea, senza saperlo, diventa missionario del primo papa. Non gli fa un trattato di teologia, non tenta di convincerlo della bontà delle sue idee, semplicemente racconta. Sembra di sentirlo: «Sai, eravamo io e Giovanni di Zebedeo con il figlio di Zaccaria. È passato Gesù. Lo abbiamo seguito, si è accorto di noi. Ci ha fissati. Che sguardo, Simone, che sguardo. Siamo andati a casa sua. Devi venire anche tu. Ti assicuro che ne vale la pena. Fidati, poi mi dirai…». Andarono. E successe quel che successe. Un incontro ti salva la vita; un incontro, a tanta gente, ha rovinato la vita.
Eravamo amici da ragazzini. Salvatore non era peggiore di me. Frequentavamo la stessa scuola, abitavamo la stessa terra, facevamo le stesse marachelle. Fu trascinato in una banda di piccoli delinquenti. Ci separammo. Finì in carcere. In quel luogo fu «promosso». Uscì che era un capo. Erano gli anni in cui Raffaele Cutolo e la sua banda terrorizzavano e insanguinavano la Campania. Salvatore, ormai, era uno di loro. Lo incontrai alla festa del paese. Era difeso dai suoi guardaspalle. Il viso bello come sempre ma terribilmente triste e severo. Lo avvicinai: «Salvatore …» balbettai. «Ho saputo che sei diventato prete – mi disse – sono contento, prega anche per me…». Non lo vidi più. Pochi mesi dopo, stavo confessando in sagrestia, il telefono squillò: «Hai saputo? Hanno ammazzato Salvatore…» Avevamo 38 anni. Non ero migliore di lui, non era peggiore di me. Un incontro gli distrusse la vita. Alla maggior parte dei credenti viene chiesto semplicemente questo, essere testimoni di un incontro, di un amore, di un’esperienza. Raccontare, fare da tramite, coinvolgere, entusiasmare. È Gesù che salva. È lui che il mondo vuole, anche quando non lo sa. È di lui che la Chiesa vive; è lui che ha il dovere di annunciare. A un patto, però: che chi si fa carico di questa nobilissima missione sappia farsi da parte al momento opportuno. Non invada il campo. Non tenti con subdole manovre – consce o inconsce – di imbrogliare le carte. I cristiani non sono i salvatori ma i portatori. Brillano sì, ma di luce riflessa. Non sempre è facile. Potrebbe – dico potrebbe – accadere che invece di servire si facciano servire, invece di testimoniare pretendono di imporre. Accantonando la più stupenda e indispensabile delle virtù: l’umiltà. Umiltà che è sinonimo di pace interiore e di verità. La chiesa non ha motivo di esistere se non per donare al mondo Gesù e la Parola che salva. Certo, come scriveva don Primo Mazzolari «non bisogna calunniare l’uomo». Non occorre parlarne male. Quando corrono sui binari loro imposti da Dio o, per chi non crede, dalla natura, sanno essere grandi, gli uomini. Un treno ad alta velocità. Ma quando se ne allontanano iniziano a fare guai, il cui prezzo sarà pagato anche dagli altri. Siamo una grande famiglia. E come ogni famiglia condividiamo l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo. «La bellezza salverà il mondo» ha detto Dostoevskij. Vero. Il bello attrae l’uomo come quando ha fame, il pane. Lo porta in alto e gli fa contemplare la terra e le galassie. Belli sono il mare e le montagne, la neve e le giraffe. Ma belli, soprattutto, sono questi bipedi cui abbiamo la fortuna di appartenere. Belli sempre, quando, piccini, gattonano per correre dal babbo e quando, agli sgoccioli, stanno per dire addio alla vita. Quando ricchi e annoiati sprecano singolarmente quanto basterebbe per sfamare un’intera tribù di africani e quando si ritirano – come ha fatto un caro sacerdote italiano qualche mese fa – in eremitaggio. Stupendo ma insaziabile è l’uomo. Porta dentro un vuoto che tenta invano di colmare, anche quando non lo sa. E per farlo, non poche volte si smarrisce. In lui ogni facoltà deve raccordarsi a un’altra, pena il malfunzionamento del meccanismo. Non sempre accade. I piaceri della vita, spocchiosi e prepotenti, lo ammaliano. Lo incitano a correre, a fare presto, come se avessero paura di perdere qualcosa. Ed eccolo precipitarsi sulla bancarella della vita per arraffare quanto più è possibile, anche a costo di sottrarlo agli altri. Un accumulare inutilmente «manna» che non potrà mai mangiare. Ho sempre pensato che anche questo affanno, faticoso e dannoso, in un certo senso sia una delle prove dell’esistenza di Dio. Abbiamo un vuoto dentro che non colmeremo mai. Possibile che in tanti secoli non lo abbiamo ancora capito? Possibile che anche tra uomini di chiesa, che pur dicono di amare il Signore della vita, siamo costretti a osservare questo strano fenomeno che rattrista e umilia? Rimane bello l’uomo, anche quando pecca, soprattutto se, pentito, ritorna sui suoi passi. Bello quando, senza far rumore, si fa accanto al fratello smarrito e oppresso. E trova il coraggio di dirgli: «Adesso sta’ sereno, appoggia la testa sulla mia spalla. Dormi, riposa, non pensare a niente…».
Farsi prossimo. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti…». Una parabola che da sola basterebbe a metterci in crisi. I briganti lo hanno derubato e malmenato. Ferito, umiliato, nudo, da solo non ce la farà mai a rialzarsi. Potrebbe morire da un momento all’altro. Ha bisogno di una mano pietosa che lo sollevi. Chi è quell’uomo? Tu, io, l’intera umanità. Passano due persone. Non si fermano, hanno fretta, stanno correndo al tempio; a pregare, a sistemare le cose per il «loro» culto, a inneggiare al «loro» dio. Lo vedono ma non lo aiutano, perdendo così l’appuntamento con il vero Dio che, camuffato, li aspettava. Poveracci, non lo hanno riconosciuto. Terribile. Se ci sbagliamo su Dio sbaglieremo su tutto. Uno sconosciuto vede e sente il sangue ribollirgli nelle vene. Ne ha pietà. La pietà. Eccola l’altra grande virtù di cui l’umanità avrà sempre più bisogno. Cambiano le epoche, i linguaggi, le mode, gli ideali, mai cambierà il cuore dell’uomo, sempre bisognoso di amare e di essere amato. Lo sconosciuto – di lui non sappiamo quasi niente – ha saputo conservarla, la pietà. Si ferma. Incoraggia, soccorre, accudisce il viandante sfortunato. Chi è questo samaritano buono? Ancora una volta: sei tu, io, l’intera umanità. Scelte. La nostra intera esistenza è caratterizzata dallo scegliere. Anche oggi dovrò scegliere se davvero voglio servire i poveri o farmi servire da loro. Se strumentalizzare la mia fede e la mia chiesa per fare un salto in avanti nella carriera o serenamente andare dove Dio mi manda. Nessuna scelta, per quanto definitiva – pensate alla consacrazione, all’ordinazione sacerdotale, al matrimonio –, nessuna scelta, dicevo, può metterci al riparo una volta per sempre dal nostro egoismo e dalla nostra vanità che, come l’alba, si ripresentano ogni mattina. Farsi prossimo. Dove il Signore vuole. Ogni città è crocevia di mille esperienze. In ogni città convivono santi e peccatori, poveracci e straricchi. In ogni città c’è chi si consuma per un pezzo di pane e chi, dopo averne mangiato a sbafo, lo getta nelle immondizie.
Tu da che parte stai? A questa domanda non puoi non rispondere. Per non sbagliare, chiediti: Gesù da che parte starebbe? Senza umiliare i ricchi, ma richiamandoli al loro dovere, il Signore amerebbe sedere alla mensa dei poveri. È bello stare con i poveri. Non occorre conoscere per forza il galateo, né avere letto l’ultimo libro che piace alla critica e all’editore. Dai poveri non hai l’onere di presentarti in abito da sera né calzare quelle scarpe alla moda che tanto ti fanno male ai piedi. Con i poveri puoi essere te stesso e godere della loro compagnia. I poveri amano sul serio, sanno ancora entusiasmarsi e stupirsi. Con chi ha fame, tutti i discorsi sulla carità valgono poco. A loro devi portare da mangiare. Quando, a decine, i senzatetto muoiono di freddo nelle città opulenti e annoiate, devi arrivare con coperte e abiti pesanti; aprire loro le case sfitte, le chiese sconsacrate – quante ce ne sono? – e i locali della parrocchia. Loro, i poveri, i piccoli, gli immigrati, nemmeno sanno di avere dei diritti. Non hanno studiato, non parlano la nostra lingua, hanno vissuto ai margini. Dovrai farlo tu per loro. Tu sarai la loro voce. A te l’onore di farti avanti, rischiando anche qualche incomprensione da parte dei tuoi stessi confratelli. Sarebbe bello se tra i vari titoli di cui si fregiano gli uomini e anche i religiosi ce ne fosse uno che reciti: «A tizio, samaritano buono». Se ci fosse, bramerei averlo anch’io. Solo se lo meritassi, però, mai usurpandolo.
Sono entrato in seminario a quasi trent’anni, dopo aver lavorato in ospedale come infermiere professionale prima e capo reparto dopo. Un lavoro che mi ha forgiato. In quel luogo, dove la gente soffre e spera, ho imparato tante cose. Credo che la riflessione sul senso della vita e della morte – ma l’ho capito dopo – sia scaturita anche da questa drammatica esperienza: era una bella giornata di sole, quando di buon mattino, un giovane privo di sensi fu trasportato in fretta al Pronto soccorso. Ci precipitammo. Aveva poco meno della mia età. In officina era stato colpito da una scossa elettrica. Facemmo di tutto per strapparlo alla morte. Alla fine, volò via. Sul volto dei colleghi si leggeva la delusione e un senso di sconfitta. Come intontito, restai a fissare quel corpo giovanissimo, vivo fino a mezz’ora prima. Come me, era andato a letto la sera prima. Come me, si era svegliato quel giorno. Aveva la mia età, i miei stessi sogni, forse le mie stesse speranze. E adesso? Dov’era adesso? Era davvero tutto finito o – chissà – c’era da qualche parte un posto dove, con la giustizia e la pace, aveva una casa dove abitare? Quella morte mi segnò. Mi preparò. Quando, qualche anno dopo, un frate francescano apparve sul mio cammino sotto forma di viandante che chiedeva la carità di un passaggio, mi fermai. Dio sia benedetto mille volte per quel frate. Quell’incontro mi cambiò la vita.
Periferie. Papa Francesco: «Dobbiamo guardare le periferie non come la fine, ma l’inizio della città». Ha ragione da vendere il nostro papa. Zeppe di problemi, portano in sé tanta ricchezza. I miei bambini sanno essere felici con poco. Padre Franco, mio caro amico missionario in Guinea Bissau, m’invia i video che realizza con la sua comunità. Una comunità povera che sa essere felice. E canta. E danza. E ride. E ti coinvolge. E ti mette in crisi. E ti ricorda che, se hai avuto di più, hai il dovere di donare di più. Spezzare il pane con l’affamato è un obbligo per chi ha fede in Dio, ma conviene anche a chi dice di non credere. Non esasperare i poveri conviene. Aiutarli, promuoverli, godere della loro amicizia, imparare da loro è una grazia. Per tutti, in particolare per chi, sentendosi chiamare per nome un giorno, ha avuto il coraggio – e forse anche un pizzico di benedetta incoscienza – di rispondere: «Eccomi, Signore. Fai di me quello che meglio credi…».
Tratto da Orientamenti Pastorali n.1-2/2024 (tutti i diritti riservati)