Paola Bignardi – pedagogista

La fuga delle quarantenni[1] è il titolo della breve pubblicazione che alcuni anni fa ha fatto scalpore e ha lanciato l’allarme sull’allontanamento delle donne dalla chiesa. Oggi, dopo oltre dieci anni, quel testo ha accresciuto la sua attualità: la fuga dalla chiesa e (talvolta anche) dalla fede non riguarda più le quarantenni, ma le quindicenni, le diciottenni, le ventenni…

  1. Donne e chiesa: un rapporto difficile

Si direbbe che il rapporto delle donne con la chiesa conosca un processo di progressiva estraneità, tanto intenso quanto intenso è stato nel passato anche recente la forza dell’attaccamento affettivo e anche concreto delle donne: assidue alla pratica religiosa molto più dei loro coetanei maschi, attente all’insegnamento della chiesa, sempre pronte a prestare il loro servizio alla comunità nei ruoli più diversi, accomunati tutti dal loro essere umili: pulizia della chiesa, visite ai malati, centri di ascolto dei poveri, servizio al bar dell’oratorio e anche catechesi, soprattutto ai piccoli. Pochi ruoli di responsabilità, nessuna possibilità di prendere decisioni se non su temi di scarso rilievo, nessuna possibilità di influire sulle scelte di fondo della comunità. A donne che la responsabilità la conoscono bene, anche nei suoi risvolti più faticosi, in famiglia, nel lavoro, nella scuola, nella società… questa situazione ormai sta stretta. È vero che anche negli ambiti laici le donne raramente occupano posizioni di responsabilità, ma è anche vero che le due situazioni non sono paragonabili: qui la linea di tendenza è verso una crescita del coinvolgimento; nella chiesa, al contrario, sembra essere verso una sempre maggiore estraneità.

1.1. Alcuni numeri

Le ricerche che l’Osservatorio Giovani Toniolo sta conducendo da oltre un decennio permettono di dare obiettività a un fenomeno che viene percepito ma difficilmente conosciuto nelle sue proporzioni reali e nella sua evoluzione. Si tratta di indagini che ricorrono sia al linguaggio freddo e impersonale, ma impietoso, dei numeri, sia all’ascolto delle voci dei giovani. L’ascolto spiega i numeri, li rende vivi, permette di capire che cosa c’è al di là di essi. Un’integrazione di metodi molto utile, capace di dare ricchezza di conoscenza di un fenomeno che rischia di essere liquidato in maniera troppo superficiale e approssimativa.

Il questionario che ogni anno, dal 2013, l’Osservatorio Giovani Toniolo sottopone a un campione nazionale di giovani tra i 18 e i 30 anni permette di ricostruire l’evoluzione dell’allontanamento delle giovani dalla chiesa. Le giovani donne che nel 2013 si sono dichiarate cristiane cattoliche erano il 61,2%; nel 2023 tale percentuale si è abbassata al 33%. Un calo così drastico segnala un fenomeno imponente. Se questo trend resterà costante, nel 2050 le giovani donne cattoliche saranno il 6%, una percentuale inferiore a quella della media dei giovani che sarà del 7%.

Cresce corrispondentemente il numero delle giovani che si dichiarano atee: nel 2013 erano il 12%, mentre nel 2023 sono diventate il 29%. Cresce il numero delle giovani che dichiarano di credere in una generica entità trascendente e che non si collocano né tra le cattoliche né tra le atee.

Non ci sarebbe bisogno di dati statistici per capire che le giovani donne stanno disertando i riti religiosi; basta partecipare a un’uucaristia domenicale, in una qualsiasi chiesa. Nel 2021 le giovani donne che dichiarano di non aver mai partecipato nell’ultimo anno a un rito religioso sono il 39%, un punto in più dei loro coetanei maschi. Mentre quelle che dichiarano di aver partecipato una volta alla settimana, si presume alla messa della domenica, sono state il 9%.

1.2. Alcune voci

Se i numeri avessero un significato assoluto, si potrebbe dire che si è in presenza di un fenomeno di progressiva e radicale de-cristianizzazione della società italiana. Ma sarebbe un giudizio che non ritrae la realtà, molto più articolata e complessa. È quella che si può cogliere solo mettendosi in ascolto, cercando di capire quali ragioni vi sono dietro il linguaggio anonimo dei numeri. L’ascolto permette di capire la complessità, la varietà e spesso la profondità delle ragioni che stanno dietro quell’allontanamento, e che spesso sono ragioni comuni a quelle delle giovani che sono rimaste, che continuano con il loro impegno di animatrici o educatrici, o che comunque continuano a partecipare alla vita di parrocchie e associazioni ecclesiali, sentendosi parte di esse.

L’Osservatorio Giovani Toniolo ha indagato questa realtà con una ricerca realizzata nel corso del 2023: 100 interviste a giovani – uomini e donne – che hanno abbandonato la chiesa e 12 focus group con giovani che sono rimasti. Storie, pensieri, sensibilità, esigenze a confronto, che rivelano come oggi non sia in atto un processo di rifiuto della religione, ma piuttosto una trasformazione del modo di credere, delle attese che le giovani credenti hanno verso le comunità cristiane.

Le giovani donne hanno verso la chiesa un atteggiamento molto critico, le cui ragioni non sono molto diverse da quelle dei loro coetanei maschi. Vale anche per loro quanto la Christus vivit dice a proposito dei giovani in generale: «Al sinodo si è riconosciuto che un numero consistente di giovani, per le ragioni più diverse, non chiedono nulla alla chiesa perché non la ritengono significativa per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, poiché sentono la sua presenza come fastidiosa e perfino irritante» (n. 40).

Tra le molte ragioni di disagio delle giovani, vi è l’insegnamento della chiesa sui temi che riguardano la sessualità, la vita e la famiglia e il carattere della sua proposta, che ritengono astratta e avulsa dalla realtà quotidiana; la modalità dogmatica e non dialogica con cui si propone; i linguaggi «antichi», che fanno sentire la chiesa vecchia e anacronistica. Un posto importante tra le motivazioni dell’allontanamento è il rapporto con la componente adulta della comunità: sacerdoti e laici. Da loro spesso si sentono giudicati per il loro modo di porsi, di vestire, di parlare, di pensare; divergenze che talvolta sfociano in veri e propri conflitti, in atteggiamenti di emarginazione o di esclusione… La qualità delle relazioni comunitarie e la povertà esistenziale delle culture che attraversano le comunità cristiane fanno dire a qualche giovane che in parrocchia «le manca il fiato». La questione del ministero alle donne, che tanta parte sembra avere nei dibattiti a livello teologico, ha scarso rilievo tra le giovani; caso mai le mette a disagio quello che esse percepiscono come una discriminazione, senza rilevarne gli effetti sulla comunità cristiana.

Le ragazze che si allontanano vivono la loro presa di distanza con un po’ più di aggressività rispetto ai coetanei maschi. Si direbbe che l’attaccamento e il coinvolgimento maggiori di un tempo abbiano generato un corrispondente senso di delusione, talvolta di rabbia. E non è detto che in loro non vi sia nostalgia per il tempo in cui partecipavano alla vita della parrocchia; vi è in loro il desiderio di un ritorno, ma non alle condizioni di prima.

E le giovani che sono rimaste? Hanno mantenuto un senso di appartenenza alla comunità, di cui pure riconoscono i limiti. Spesso le opinioni di chi è rimasta e di chi si è allontanata hanno gli stessi accenti e gli stessi contenuti; la differenza sta in un attaccamento affettivo delle une e non delle altre e il legame con qualche figura significativa della parrocchia. Spesso anche l’appartenenza a un’esperienza associativa contribuisce a mantenere quei legami che trattengono all’interno della comunità ecclesiale. In chi è rimasta vi è la fiducia di poter cambiare qualcosa di ciò che non va, soprattutto se questa fiducia è sostenuta da legami comunitari forti, quali quelli stabiliti attraverso un’esperienza associativa.

  1. Donne: mistero di vita

Vi sono alcune condizioni di vita che hanno caratteristiche tali da divenire simboli, che dicono molto più di ciò che oggettivamente significano. Ritengo che, se si pensa alla vita della chiesa, queste figure siano le donne, i giovani e i poveri.

C’è quasi un mistero nella loro vita che le rende presenze dense, che richiamano anche altro, oltre a ciò che rappresentano.

Le donne richiamano il mistero della vita, e quindi del domani; i giovani evocano il futuro e la novità; i poveri, il mistero della fragilità dell’esistenza, delle sue forme storiche, delle sue istituzioni. Sono figure che portano con sé una traccia di mistero e che provocano, che rinviano oltre sé. Parlare delle donne nella chiesa facilmente induce a parlare della chiesa, delle sue scelte, del suo modo d’essere.

È lo sguardo dalle periferie, di cui parla talvolta papa Francesco, che è uno sguardo che vede ciò che dal centro non si vede. Per questo è importante ascoltare queste voci: parlano di ciò che normalmente non si sente; permettono di gettare lo sguardo oltre… Proprio per questo sono spesso voci – dalla periferia – che, in quanto evocano un dolore, sono scomode e provocatorie.

I dati che abbiamo visto non parlano solo delle donne: parlano di una chiesa in cui qualcosa non funziona, se le donne, così fedeli a tutte le iniziative e le attività pastorali, se ne vanno. Non si può cercare nelle donne la causa di questo fenomeno. Occorre cercarlo nel modo di vivere della chiesa. E, se si ascoltano le donne, le loro parole dicono quello che non va, quello che si aspetterebbero che cambiasse.

In questo senso, penso che si possa dire che le donne sono un dono per la chiesa, proprio per la loro sensibilità, per il loro modo di vedere le cose, che a fronte di alcune situazioni è anche fatto di critica, è un modo ruvido di farsi ascoltare su aspetti ritenuti importanti e non riconosciuti.

  1. Cambiare la chiesa con le donne

Che cosa dicono le donne alla chiesa? Le donne non chiedono potere nella chiesa, non chiedono posti. Chiedono molto di più. Chiedono una chiesa diversa. E quello che le donne chiedono alla chiesa, la renderebbe migliore.

Chiedono una chiesa evangelica, cioè umana, accogliente, misericordiosa, attenta ai poveri, senza potere; una chiesa dialogica, capace di ascoltare. Vivesse così la chiesa, nelle sue espressioni quotidiane, parrocchiali, mostrerebbe che il messaggio che annuncia non solo è bello, ma è possibile, nella sua paradossalità e nella follia del suo radicalismo.

Questo è il sogno che le donne hanno sulla chiesa. Potremmo dire che questo è il sogno di tutti (forse anche quello di Dio!). Ma le donne che se ne vanno, così rapidamente, ci stanno dicendo che il tempo è scaduto: il tempo per mostrare non tanto che questo sogno la chiesa lo realizza in toto, ma che è seriamente incamminata su questa strada.

Perché le donne non chiedono alla chiesa di essere perfetta. Lo sanno che il tempo della perfezione non è quello storico, ma si attendono una chiesa vera, umana, tesa al vangelo.

  1. Una chiesa umana

Una delle critiche che i giovani – maschi e femmine – fanno alla chiesa è quella di essere fredda, distaccata, anonima, impersonale. Per loro, che sono sensibili alle relazioni, questo è un aspetto critico. Per i giovani le relazioni sono il senso della vita; sentono che non si può vivere senza amici, senza punti di riferimento. Una ragazza, in una recente indagine, parlando proprio di questo aspetto, disse: «le relazioni sono il senso della vita, perché non siamo fatti per vivere da soli». E, a proposito di punti di riferimento, un’altra ragazza ha scritto: «Tutti i giovani si pongono domande su Dio e sull’esistenza; ma queste sono domande difficili, che una volta i giovani potevano affrontare avendo accanto a sé genitori, insegnanti e educatori che li sostenevano nella loro ricerca. Non si può guardare dentro un abisso senza qualcuno che non ti faccia precipitare. I giovani di oggi sono più soli, questo è l’unico dato che si dovrebbe analizzare”». I giovani cercano qualcuno che non li faccia precipitare nell’abisso della vita.

Le giovani donne si sentono estranee in assemblee eucaristiche dove le persone stanno una accanto all’altra come statue, ognuno per sé. Una somma di individui non fa una comunità, anche se partecipano tutti alla stessa eucaristia. La critica va oltre sé stessa, a invocare una chiesa di persone che si parlano, che si sorridono, che condividono una vita. I linguaggi della chiesa – quello liturgico e anche quelli della vita quotidiana – hanno un sapore di antico. Hanno bisogno di trovare casa in un contesto di calore e di bellezza. E questo chiama in causa la cura del modo di celebrare, la bellezza di un rito, a rendere coinvolgente l’esperienza, anche se il linguaggio non è materialmente tutto comprensibile.

Le donne nella chiesa cercano bellezza, perché una delle tensioni che le abita è la ricerca di armonia: di sé, dentro di sé, con il creato, con gli altri. La cercano anche nella chiesa l’armonia, per sentirsi a casa, anzi, in quella casa che il vangelo e la fraternità che origina dal vangelo rende più bella e più accogliente di qualsiasi altra casa.

A una chiesa umana le donne chiedono calore, accoglienza. Non possono capire questo aspetto le persone che ritengono che essere cristiani significa semplicemente credere con la testa che Dio esiste, che Gesù Cristo è esistito, e qualche altra verità contenuta nel catechismo. Le donne, che pensano anche con il cuore, sentono che la fede è una vita; o inserisce in una trama di relazioni calde, o non è fede: è dottrina, è ideologia, con tutto quello che ne consegue. E la prima di queste relazioni è con Dio, che non è un’idea né un articolo del Credo.

Nella vita delle donne hanno un posto importante le emozioni. Le emozioni sono il tono delle relazioni con gli altri, sono un modo per conoscere – perché non si conosce solo con la testa! – le donne conoscono anche Dio con il cuore. Non si possono sentire a casa in una comunità dove le emozioni sono guardate con sospetto, dove una fede che si lascia anche emozionare è una fede ritenuta impura, o bambina, chiamata a crescere e dunque a liberarsi da questo aspetto. Le donne chiedono alla chiesa di liberarsi dalla rigidità della sua impostazione e aprirsi a questa vita, che le darebbe davvero un volto di famiglia, fraterno e caldo.

  1. Una chiesa dialogica

Ciò che le giovani donne non sopportano della chiesa è il modo perentorio con cui propone i suoi insegnamenti e dà le sue indicazioni. Eccone una testimonianza: «Se il papa dice che è sbagliata una certa cosa, non è che io l’accetto, punto. Ne parlo, ne discuto, cerco di capirlo, poi è chiaro che mi fido del suo giudizio. Ma questo non vuol dire che non abbia dubbi, o che non ne parli, o non cerchi di approfondire la questione. È il rifiuto di indicazioni senza ascolto della vita, senza ascolto delle persone».

La chiesa ritiene che il tipo di rapporto che è chiamata a intrattenere con le persone è quello dell’insegnamento, della proposta. Del resto, spesso accade così in famiglia; gli adulti pensano che il loro rapporto con i più piccoli sia unidirezionale. Solo i piccoli devono imparare da loro, che da adulti sanno come si deve vivere. La chiesa non pensa di aver bisogno di sapere come concretamente le persone vivono quello che lei trasmette – si dice così – ma meglio si dovrebbe dire: affida a loro, per la loro vita. E capire com’è la vita, quando si incontra con il vangelo? Oggi? In concreto? Perché anche il vangelo cresce con chi lo vive. Gregorio Magno ha scritto che la Scrittura cresce con chi la legge. Questo continua a valere anche oggi: il vangelo cresce con chi lo vive in famiglia, al lavoro, in politica…. Ma a chi dirlo, se la chiesa non ha previsto luoghi e tempi in cui sia possibile prendere la parola?

Il sinodo è una preziosa occasione. È il segno che si sta iniziando a comprendere che la chiesa deve scendere dalla cattedra e farsi attenta alla vita, in ascolto di essa. Papa Francesco ha insistito in ogni modo perché questo accadesse. Il sinodo non è una cosa in più da fare. Il sinodo deve cambiare lo stile della chiesa, se no è tempo perso. L’ascolto non serve solo a qualcuno per sapere che cosa l’altro pensa o sente, ma serve a creare coinvolgimento, a condividere.

  1. Le donne chiedono alla chiesa di credere in loro

Chiedono alla chiesa di essere prese in considerazione; le chiedono di credere che loro hanno un punto di vista originale sulla vita, un modo proprio di vedere le cose, diverso da quello degli uomini; un punto di vista di cui la chiesa ha bisogno, proprio per acquisire quei tratti di cui ho detto prima.

Molte sono le donne che operano nelle comunità. Fino a non molti anni fa, la loro presenza nella comunità cristiana è stata così rilevante da far scrivere a Giovanni Paolo II nella Christifideles laici che «diverse situazioni ecclesiali devono lamentare l’assenza o la troppo scarsa presenza degli uomini, una parte dei quali abdica alle proprie responsabilità ecclesiali, lasciando che siano assolte soltanto dalle donne: così, ad esempio, la partecipazione alla preghiera liturgica in chiesa, l’educazione e in particolare la catechesi ai propri figli e ad altri fanciulli, la presenza a incontri religiosi e culturali, la collaborazione a iniziative caritative e missionarie» (n. 52).

Le donne nella comunità cristiana occupano le posizioni più umili, dove non conta ciò che pensano o come affronterebbero certe situazioni, ma unicamente il loro operare, secondo impostazioni che non hanno scelto. A lungo andare, magari anche loro si convincono che è bene così, si adattano a stare in posizioni subordinate, spesso infantilizzanti.

Credere nelle donne, per la chiesa, significa far loro percepire concretamente che c’è bisogno non solo delle loro braccia o del loro tempo, ma della loro testa, del loro cuore, della loro vita. Che c’è bisogno di loro per una comprensione della fede. Il modo di vivere la fede, da parte delle donne, è originale. Anche per questo c’è bisogno di loro.

Il profilo religioso delle giovani donne penso si possa delineare così: esse hanno una fede che cerca non una dottrina su Dio ma la relazione con Dio; questa si esprime in una preghiera soggettiva e poco interessata alle forme codificate, strutturate, della preghiera liturgica. La ricerca di una Presenza, della relazione con Dio, prevale decisamente sul bisogno di capire e sulla domanda di una verità.

L’esperienza di fede prende spesso il carattere dell’emozione e dell’affettività, certamente legato al peso che in essa ha la relazione. Le giovani chiedono di esprimere la fede in esperienze coinvolgenti e concrete, che permetta loro di esprimere sé stesse, di sentirsi protagoniste, di rendersi utili. Hanno bisogno di vivere una fede come impegno per gli altri, nella forma del prendersi cura. Si tratta di tre direttrici (autoespressione, protagonismo, bisogno di concretezza) che si possono riscontrare anche nei giovani maschi: a differire sono i modi e l’intensità con cui queste aspirazioni si traducono, più che le aspirazioni in sé.

La chiesa, se vuol essere più umana, ha bisogno delle donne. C’è bisogno di loro perché il loro modo di prendere le decisioni è diverso, più attento alle persone, più capace di ascolto, a fronte di stili decisionali a volte sconcertanti nel modo con cui passano sopra alle persone.

  1. Con la benedizione di papa Francesco

Papa Francesco non ha un documento o un pronunciamento organico sulla donna. Discorsi occasionali, pronunciati in circostanze diverse, gli hanno permesso di esprimere un orientamento di grande attenzione alla condizione della donna e al contributo che essa può dare alla vita della chiesa e della società.

Il contributo che papa Francesco riconosce alle donne riguarda la loro differenza, l’originalità del loro approccio alla vita. Cito il discorso fatto in occasione dell’udienza alle superiore generali di tutto il mondo,[2] entrando nel concreto di alcune situazioni, rispondendo alle domande poste dalle sue interlocutrici.

Gli aspetti toccati sono stati numerosi, ma quello cruciale è: se è vero che la chiesa riconosce alla donna un’importanza così grande da parlare di «genio femminile», perché le donne continuano a essere escluse dai luoghi dove si prendono le decisioni?

Domanda molto pungente e pertinente. Al di là di essa, vi è un dato di fatto: nella chiesa le decisioni vengono prese all’interno di organismi che sono governati dai presbiteri. Poiché la donna è esclusa dall’ordinazione, non può partecipare ai processi decisionali. Si tratta di una constatazione che tutti possiamo fare ogni giorno; le donne la fanno con particolare sensibilità, perché, coinvolte come sono nella questione, avvertono quanto questo sia innaturale.

La risposta di papa Francesco, pur non avendo l’articolazione di un discorso strutturato data la natura informale del dialogo, è stata molto interessante. Vi sono due piani su cui la questione può essere interpretata: quello funzionale, delle «cose da fare», e da questo punto di vista – dice papa Francesco – nulla vieta che a una donna vengano riconosciute delle funzioni di leadership. Utile riflettere su questo passaggio del discorso: «Per tanti aspetti dei processi decisionali non è necessaria l’ordinazione. Non è necessaria. […]. Per me è molto importante l’elaborazione delle decisioni: non soltanto l’esecuzione, ma anche l’elaborazione, e cioè che le donne, sia consacrate sia laiche, entrino nella riflessione del processo e nella discussione. Perché la donna guarda la vita con occhi propri e noi uomini non possiamo guardarla così. È il modo di vedere un problema, di vedere qualsiasi cosa, in una donna è diverso rispetto a quello che è per l’uomo. Devono essere complementari, e nelle consultazioni è importante che ci siano le donne». Occorre quindi andare oltre il semplice momento della decisione: alla donna deve essere riconosciuto il valore insostituibile del suo essere donna. L’esempio che papa Francesco porta in proposito è molto interessante: ricorda quando a Buenos Aires un parroco gli chiese di ordinare diacono un laico molto bravo. Sottinteso: era troppo poco essere laico per un cristiano veramente per bene. Ma l’allora arcivescovo di Buenos Aires si rifiutò. Vi è un clericalismo strisciante nella chiesa, che riguarda anche la condizione femminile, portando a pensare che occorre accedere ai ministeri ordinati per svolgere nella chiesa una funzione importante.

Si tratta dunque, come hanno suggerito le stesse superiori generali, di modificare certe prassi ecclesiali che vedono i ruoli di responsabilità quasi esclusivamente legati ai ministri ordinati. Non occorre aver ricevuto l’ordine sacro per prendere decisioni che hanno bisogno di discernimento, cioè di fede, di ascolto della Parola, di obbedienza allo Spirito, e anche di competenze, di capacità di dialogo e di gestione dei processi complessi. Cose tutte per le quali la chiesa potrebbe trarre grande vantaggio dal «genio femminile», che è una particolare sensibilità nel vivere le relazioni interpersonali e il rapporto con il mondo.

Nella situazione attuale, le donne nella chiesa, quelle che non se ne sono andate, hanno davanti a sé diverse strade. O finire irretite in dinamiche di marginalità ecclesiale segnate da un’insopportabile dipendenza e da un corrisponde risentimento, oppure valorizzare la dimensione carismatica della loro presenza. La donna ha un dono che riguarda il modo originale di leggere la realtà, la capacità di ascolto, uno stile di relazione e di decisione… che le consentono di entrare nelle dinamiche ecclesiali con quella libertà e quella creatività che il legame con l’istituzione non le permetterebbe. E forse la chiesa di oggi ha più bisogno di un cambio di stile che di nuove risorse istituzionali.

Ha bisogno di donne che sappiano sognare e rischiare.

La storia dell’Azione cattolica è esemplare in questo. Armida Barelli, quando le donne potevano solo realizzarsi come «angeli del focolare», apriva loro la strada dell’impegno sociale e del protagonismo nella vita apostolica della chiesa. Nella chiesa vi sono strade aperte, che occorre aggiornare e tornare a percorrere. Il nostro tempo ha bisogno di una creatività morale e spirituale cui le donne possono dare un contributo insostituibile.

Il magistero sulla donna si è espresso più volte dopo il concilio, nella linea di una grande apertura. Basti citare il documento che papa Giovanni Paolo II ha interamente dedicato alla donna, Mulieris dignitatem (1988), dove si parla di genio femminile. Documento molto bello, con un lirismo particolare in alcuni passaggi, ma che poco ha cambiato nelle prassi ecclesiali. Più incisivo il breve scritto Lettera alla donne (1995), di qualche anno successivo, dove si legge un riconoscimento molto importante: «Non posso non manifestare la mia ammirazione per le donne di buona volontà che si sono dedicate a difendere la dignità della condizione femminile attraverso la conquista di fondamentali diritti sociali, economici e politici, e ne hanno preso coraggiosa iniziativa in tempi in cui questo loro impegno veniva considerato un atto di trasgressione, un segno di mancanza di femminilità, una manifestazione di esibizionismo, e magari un peccato!” (n. 6).

Il magistero non manca; ora è tempo di tradurlo in vita di chiesa.

 

[1] A. Matteo, La fuga delle quarantenni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.

[2] 12 maggio 2016.