Sonia Ristorto – dottoranda in teologia sistematica presso la facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano, socia ordinaria del Coordinamento teologhe italiane

Quando la parola di Dio prende carne, assume una carne maschile: Gesù di Nazareth è, senza ombra di dubbio, un maschio. Nella tradizione ecclesiastica la sua maschilità è stata esaltata ben di più della sua ebraicità, o della sua classe sociale, o del suo collocarsi storicamente nel primo secolo, o del suo essere nazareno: tutte caratteristiche che, allo stesso modo della sua parzialità sessuata, caratterizzano l’umanità del Figlio. La sua maschilità è stata usata a servizio del potere patriarcale e di una mentalità androcentrica che pervade fin dalla notte dei tempi la società umana. Dio, pensato come maschio – oltre che come anziano e bianco, stereotipo del re potente – non poteva che incarnarsi in un maschio, ritenendo la maschilità come condizione normativa dell’essere umano e la femminilità come un difetto e una mancanza di perfezione.

Allo stesso modo i discepoli di Gesù sono pensati come maschi e sono maschi coloro che partecipano all’ultima cena e ai momenti salienti dell’evento cristologico. In questo comune immaginario le donne sono tutt’al più inserite come comparse, come tappezzeria a un evento che potrebbe svolgersi anche senza di esse, che le concerne ma non le vede mai protagoniste. La figura normale (e normativa) del discepolo è ancora una volta il maschio.

La teologia femminista, a partire da una rilettura non ideologica dei vangeli, ma coerente con l’evento cristologico che si vuole evento di liberazione, non tenta anacronisticamente di imporre una nuova sensibilità femminista a testi nati in contesti che ne erano privi, ma levandosi gli occhiali androcentrici riesce a scorgere, pur dentro a testi e a mondi complessivamente segnati da una cultura patriarcale, la rivelazione di una Dio[1] che, come deve riconoscere Pietro in tutt’altro contesto, «non fa preferenza di persone» (At 10,34).

Se prendiamo sul serio l’incarnazione dobbiamo guardare all’umanità di Gesù come a un’umanità in tutto e per tutto simile alla nostra, dove quel «simile» non sta in una inumana perfezione vestita di carne, ma nella profonda singolarità del suo rapporto di fede con colei che il Figlio chiama Padre. L’essere maschio di Gesù non rappresenta allora l’ennesima perfezione, né un elemento di conferma a un sistema escludente e violento come quello patriarcale; mostra piuttosto che la rivelazione definitiva del Dio liberatrice si dà in un’umanità reale e come tale contingente, parziale, limitata: Gesù è uomo e non donna, è ebreo e non greco, è libero e non schiavo… É a partire dalla sua parzialità sessuata, così come da ogni altro aspetto contingente del suo «nascere da donna» come tutte e tutti, che deve imparare a vivere dando credito alla Dio che sta nei cieli. A essere salvifica per noi non è la sua maschilità, ma la singolarità della sua fede: una fede che fonda e qualifica ogni aspetto della sua esistenza, parzialità sessuata compresa.

Il sistema patriarcale non è dannoso solo per le donne, ma anche per gli uomini costretti a corrispondere a ruoli di genere predefiniti e ingabbianti. Gesù, pur restando uomo del suo tempo, vive la propria maschilità secondo una libertà inaudita: sceglie di non possedere una donna, né figli o figlie, denunciando la mancanza di alternativa al possesso/sottomissione in una società complessivamente strutturata dalla famiglia patriarcale (Mt 19,10-12); si decide per una famiglia costituita dalla fede nell’unico Padre dall’utero da Madre, piuttosto che da legami di sangue e possesso (Mc 3,31-35); serve e si lascia servire, riconoscendo che la cifra della responsabilità non è il potere ma il servizio, comandato a chi riveste posizioni autorevoli e non già a chi si trova in posizioni subalterne (Mc 10,42-45; Gv 13,1-16); mostra le sue emozioni, si commuove e piange (Gv 11,35; Lc 19,41); tocca persone morte e malate e si lascia toccare da donne di dubbia moralità (Lc 7,36-50) e da donne mestruate e impure (Mc 5,25-34); non muore da eroe impassibile ma nel Getsemani è spaventato, inquieto e molto triste (Mc 14,33-35) e si lascia uccidere come un agnello condotto al macello (Is 53,7), rivolgendosi, sulla croce, all’unica promessa che regge anche quando tutto sembra perduto, quella della Dio.[2]

Testimoni e annunciatrici della resurrezione

L’esegesi femminista tenta una rilettura dei testi fondativi riconoscendo come la testimonianza attestata utilizzi un linguaggio culturalmente collocato, per raccontare un evento anch’esso storicamente e culturalmente collocato. É il linguaggio stesso della Scrittura, e non soltanto la sua interpretazione successiva, a essere – volente o nolente – androcentrico e patriarcale, in coerenza con il contesto societario in cui vede la luce. Banalmente, un linguaggio androcentrico è un linguaggio che utilizza il termine «uomo» come sinonimo di «umanità», a rimarcare la normatività del maschio in ordine all’umano e i maschili sovraestesi per parlare di gruppi misti. Un linguaggio androcentrico nomina in maniera esplicita le donne solo quando creano problemi o quando sono indispensabili per lo svolgersi dell’evento.

Non dovrebbe allora sembrarci strano che la presenza di donne nel gruppo dei discepoli venga taciuta nei vangeli fino al momento in cui non se ne può più fare a meno. A eccezione del Vangelo di Luca, in cui vengono nominate prima, al momento della crocifissione compare per la prima volta una lista di donne, indicate come seguaci di Gesù, con tanto di nome proprio. Le stesse donne ricompaiono alla sepoltura e sono le protagoniste degli eventi del mattino di Pasqua: l’unica che compare in tutti e quattro i vangeli è Maria la Magdalena.[3]

Marco, il Vangelo più antico, associa a Maria la Magdalena e al gruppo delle donne alcune azioni che caratterizzano il discepolato (Mc 15,40-41): esse seguivano e servivano Gesù fin dalla Galilea ed erano salite con lui a Gerusalemme. Il binomio seguire-servire, accostato alla menzione della Galilea e di Gerusalemme, lungi dall’essere pensato secondo pregiudiziali connotazioni di genere, è chiaramente un termine tecnico per indicare il loro essere associate al movimento itinerante di Gesù e alla sua missione di annunciare il regno di Dio. É indicativo che vengano messe in parallelismo con i discepoli maschi: come Pietro viene sempre nominato per primo insieme a Giacomo e Giovanni e gli altri discepoli sono lasciati sullo sfondo, così Maria la Magdalena viene nominata per prima con Maria di Giacomo e Salome e le altre donne sullo sfondo.

Matteo smorza un po’ i termini tipici del discepolato utilizzati da Marco: non ci dice che lo servivano già in Galilea, ma che lo avevano seguito dalla Galilea per servirlo, inoltre evita di riferirsi alla salita a Gerusalemme. Inizia già qui lo scontro tra il chiaro afflato della Spirito di liberazione egualitaria respirabile nell’evento cristologico e le esigenze di una istituzione ecclesiale che si trova a scendere a compromessi con l’onnicomprensivo sistema societario patriarcale.

Il processo già iniziato con Matteo diventa evidente in Luca, il quale trasforma radicalmente i termini tipici del discepolato utilizzati da Marco e descrive le donne come delle persone guarite da spiriti cattivi e infermità che offrono servizio di sostegno economico a Gesù e ai suoi discepoli uomini. Il mecenatismo di queste donne potrà anche essere stato reale, corrispondente a usi e costumi dell’epoca, ma non esclude il discepolato, piuttosto lo implica.

Nella lettura teologico-ecclesiale fatta da Giovanni sotto la croce, oltre al discepolo amato, troviamo Maria la Madre e Maria la Magdalena. La consegna della Madre al discepolo amato, lungi dall’essere un romantico gesto di tenerezza, simboleggia la creazione della nuova comunità cristiana: il tema è la fede, non l’affetto, e indica chiaramente la presenza fondamentale di donne nella chiesa nascente.

Nonostante il linguaggio androcentrico e il contesto patriarcale onnicomprensivo, non è stato possibile tacere il fatto che nei pressi della croce non ci fossero né Pietro né i Dodici, ma le discepole, né che l’annuncio della resurrezione sia dato in primis a delle donne, né che il Risorto appaia per primo a Maria la Magdalena. Luca può dire finché vuole che le parole delle donne che annunciano la resurrezione appaiano come un vaneggiamento alle orecchie dei discepoli uomini (Lc 24,11), ma i fatti non si cambiano e questo è indubbiamente un fatto! Nessuno di buon senso avrebbe mai inventato un annuncio di resurrezione dato a delle donne, ritenute così poco affidabili da non poter nemmeno testimoniare nei processi. Non per niente una delle più pungenti critiche mosse dal pagano Celso contro il cristianesimo è proprio l’impossibilità di fidarsi di una religione che si fonda sui vaneggiamenti di una pazza, Maria la Magdalena.

Le donne non costituiscono soltanto l’anello di passaggio tra il sepolcro vuoto o l’apparizione del Risorto e i «veri» destinatari dell’annuncio, cioè i discepoli maschi, come una mentalità patriarcale invita a pensare, ma sono esse stesse le annunciatrici. Maria di Magdala e le altre sono state le prime a effettuare il difficile cammino di riconoscimento del Crocifisso che si mostra come Risorto e ad annunciarlo: l’invito all’annuncio arriva dallo stesso Risorto! Tale riconoscimento è possibile solo se si è camminato insieme a Gesù sulle strade polverose della Galilea, condividendo la sua missione, solo dopo la salita con lui a Gerusalemme e sul calvario. Le donne sono le prime a comprendere che il Crocifisso è risorto, così come nel Primo Testamento è la mamma dei sette fratelli, martirizzati perché rifiutavano di piegarsi al potere che voleva che rinnegassero la Legge di Dio mangiando maiale, a formulare l’idea di una resurrezione dai morti a opera della Dio che dà la vita (2Mac 7).

Il cammino di fede di Maria la Magdalena e delle altre discepole è esemplare, alla sequela del maestro dall’inizio alla fine, e proprio per questo inviate all’annuncio, così come inviati all’annuncio sono anche Pietro e gli altri discepoli, apostoli e apostole del Cristo risorto.

Donne in vario modo a servizio dell’annuncio del Regno

Oltre alle discepole itineranti che seguono e servono Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme, nei vangeli troviamo molte altre figure femminili che incrociano, in modi diversi, il cammino di vita di Gesù. Spesso queste donne sono state sottovalutate dalla tradizione, lasciate sullo sfondo, sovrapposte fra di loro e caricate di stereotipi. La fedeltà all’evangelo ci impone di rendere giustizia alla loro memoria.

Un posto di rilievo hanno le discepole Marta[4] e Maria di Betania, tradizionalmente contrapposte e stereotipate a partire dall’episodio di Luca (10,38-42): una Marta tutta presa dai servizi necessari a un’ospitalità degna, come si addice a ogni brava donna di casa e una Maria che preferisce starsene accoccolata ai piedi di Gesù, in ascolto silenzioso, come si addice a ogni brava donna di chiesa. Peccato però che il racconto di Luca non abbia alcun interesse a delineare figure ideali di donne più o meno virtuose, ma si collochi invece all’interno di polemiche più o meno aspre attorno ai ruoli ministeriali svolti dalle donne nelle chiese domestiche della seconda generazione cristiana. Se da un lato troviamo Maria che rappresenta la conquista da parte delle donne all’accesso diretto e senza mediazioni maschili all’ascolto della Parola e quindi al discepolato, dall’altra parte Marta ricorda invece l’annosa lotta delle donne affinché il proprio servizio di autorità e responsabilità nelle chiese non venga pregiudizialmente espropriato loro e ridotto a faccende domestiche, ma riconosciuto come autentico. In Luca il termine casa non indica infatti il focolare domestico a sfondo patriarcale, ma il luogo in cui la comunità cristiana si raduna per l’ascolto della parola e per lo spezzare il pane: notiamo che la casa è di Marta e la sua caratterizzazione è il servizio inteso come diaconia, mentre lo stare ai piedi di Gesù da parte di Maria è un termine tecnico comunemente utilizzato per indicare la relazione tra maestro e discepolo. La tradizione Giovannea presenta Marta e Maria come protagoniste in due episodi decisivi per la comprensione della morte e resurrezione di Gesù: il ritorno in vita di Lazzaro e l’unzione di Betania. Nel primo episodio, Marta dà vita a una discussione cristologica che porta Gesù a rivelarsi come «la Resurrezione e la Vita» ed è lei stessa a pronunciare la confessione di fede cristologica che i sinottici riservano invece a Pietro: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio» (Gv 11,27). Marta, inoltre, con la sua laconica constatazione sulla puzza del morto, lungi dal mostrare una mancanza di fede, riconosce piuttosto che la glorificazione di Dio non può che passare attraverso la morte, indicando così in filigrana la glorificazione definitiva tramite l’innalzamento del Cristo sulla croce. Nell’unzione di Betania (Gv 12,1-8) è Maria ad anticipare l’imbalsamazione funeraria versando nardo prezioso sui piedi – vivi – di Gesù e asciugandoli con i suoi capelli, in un silenzio più eloquente di mille parole, profetizzando così la sua morte ma anche la sua resurrezione. Tutto quello spreco di olio accompagna Gesù a comprendere e accettare l’ingiusto spreco di vita che gli sarà chiesto come prezzo della sua fedeltà alla missione divina: non è un caso che Gesù nell’ultima cena, quando si tratta di condensare in un gesto tutta la sua vita, metta in atto nei confronti dei suoi discepoli e discepole un’azione simbolica molto simile a quella compiuta da Maria, lavando i loro piedi (Gv 13,1-17) in una maniera inaudita per un maestro e proprio per questo traboccante di amore e di vita donata affinché altri e altre abbiano vita e l’abbiano in abbondanza.

La libertà sconcertante che Gesù mostra nel parlare con una donna di Samaria è ancora più evidente e scandalizzante nel suo lasciarsi toccare da donne considerate impure dalla società. Luca (7,36-50) ci racconta un episodio che richiama quello dell’unzione di Betania ma posto all’inizio della predicazione di Gesù e focalizzato su punti differenti: Gesù è stato invitato alla mensa di un fariseo e mentre si trova steso a tavola, ecco che una donna si ferma dietro di lui, accarezza i suoi piedi e inizia a bagnarli di lacrime, ad asciugarli con i capelli, a baciarli e cospargerli di profumo. Si tratta sicuramente di una scena conturbante, soprattutto sapendo che tale donna è conosciuta per essere una pubblica peccatrice, molto probabilmente una prostituta. Simone il fariseo è convinto che, se Gesù si lascia toccare così, è perché non è consapevole di che razza di donna sia quella, in caso contrario la allontanerebbe in malo modo. Invece Gesù, che è molto meno moralista di lui e di noi, non solo la lascia fare, ma addirittura loda il suo amore e la sua fede: riconosce in quei baci e in quelle lacrime una gratuità smisurata in grado di infrangere ogni tabù e andare direttamente al cuore. I commentatori, che vedono questi gesti d’amore della donna come un’auto-umiliazione in vista di una richiesta di perdono a fronte di un pentimento per una vita dissoluta, dimenticano colpevolmente di vedere la violenza maschile insita nel desiderio sessuale incontrollato portato a sistema sociale che richiede continuamente vittime sacrificali. Al centro della scena non c’è il peccato, ma l’amore smisurato di una donna che, a partire dalla sua storia sofferta e complicata, regala la propria sensualità all’unico maschio che la merita davvero, un uomo che la sa guardare con un desiderio che accetta di rimanere aperto e insoddisfatto, pur di consentire all’altra di vivere. «Gesù è attratto dal modo femminile in cui lei gli si consegna: smodata e spudorata. Non solo non si approfitta, ma le dona ciò che a lei avrebbe fatto bene: la parola che la riconosce come amabile e salvata».[5]

Lo stesso sguardo privo di pregiudizi giudicanti viene posato da Gesù sulla donna colta in flagrante adulterio e condotta davanti a lui dagli scribi e dai farisei per metterlo alla prova (Gv 8,1-11). Quella donna è lì in mezzo, di fronte a tutti, ma nessuno, a parte Gesù, è capace di vederla davvero: la trascinano come un oggetto e di lei vedono solo il suo adulterio. Non si accorgono dell’ingiustizia insita in un sistema che condanna la donna sola alla gogna, trasformandola in capro espiatorio e salvando l’uomo che ha commesso adulterio insieme a lei; rifiutano di mettere in questione un modello di matrimonio che si fonda sulla sottomissione femminile e sul dominio maschile; sono pronti a difendere la sacralità del sistema famigliare patriarcale sacrificando quelle donne che osano variamente metterlo in pericolo. Gesù si schiera immediatamente dalla parte della vittima e ne impedisce il sacrificio scardinando il sistema sacrificale stesso: gli accusatori si fanno forti del proprio essere giusti, e si ritengono giusti perché applicano una legge di uomini credendola Legge di Dio. L’affermazione spiazzante e provocatoria di Gesù: «Quello di voi che è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei» mette in discussione proprio quel loro ritenersi giusti, presupposto indispensabile per l’uccisione dell’«ingiusta». E l’«ingiusta», giustificata e salva, riconosce che la giustizia liberante di Dio – una giustizia che, a differenza del diritto patriarcale, non opprime, non sopprime e non umilia, ma riapre nuove possibilità di vita – si è fatta carne e parola in quell’uomo che le sta di fronte e che con voce di fede chiama ora Kyrios, Signore.

Ricadute ecclesiologiche

La nostra fede cristiana è tale proprio in quanto riconosce la rivelazione definitiva della Dio nell’evento di quell’uomo di Nazareth. Di conseguenza la rivelazione non consiste in una serie di norme o di leggi, ma in uno stile di vita conforme alla parola della Dio che sta nei cieli, un’esistenza umana in cui la Dio si identifica e si riconosce senza scarti. Per questo, il modo che ha Gesù di relazionarsi alle donne non è secondario ma fa parte della rivelazione definitiva, indica il modus operandi della Dio stessa.

Una Novità che ancora oggi continua a gridare nelle nostre assemblee, nelle nostre liturgie, nel nostro diritto canonico, nella nostra prassi ecclesiale: «Non vedete? Non ve ne accorgete? Non avete imparato niente da un Maestro che sapeva rapportarsi alla pari con le donne, donando loro dignità e fiducia, lodando la loro autorevolezza (exousia) e franchezza (parrhesia) e dando loro compiti ministeriali essenziali all’annuncio del Regno e alla testimonianza di fede?».

 

[1] Accostare un articolo femminile al nome di Dio, pensato sempre al maschile, può lasciare qualche perplessità. La scelta di tale nominazione impone una riflessione non rimandabile: Dio non è, evidentemente, né maschio né femmina e non si lascia sicuramente definire o ingabbiare nelle immagini che usiamo per dirLa, ma le trascende tutte di modo che la dissomiglianza è sempre più grande di qualsiasi somiglianza. Il monopolio delle immagini maschili per dire Dio è escludente e idolatra perché eleva un’immagine – l’uomo maschio – al rango di Dio. Occorre riconoscere sia al femminile che al maschile la capacità di essere immagine di Dio, come del resto fa la saggezza biblica. Cf. E.A. Johnson, Colei che é. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana 1999 ed E.E. Green, Il filo tradito. Vent’anni di teologia femminista, Claudiana 2011.

[2] Cf. M. Mariani – M. Navarro Puerto, Percorsi di cristologia femminista, San Paolo 2022.

[3] Seguiamo qui da vicino l’analisi di Marinella Perroni e Cristina Simonelli in Maria di Magdala. Una genealogia apostolica, Aracne 2022.

[4] Cf. M. Perroni, Marta di Betania “Io credo Signore”, collana Madri della fede, San Paolo 2020.

[5] S. Segoloni Ruta, Gesù, maschile singolare, EDB 2020, p. 99.