Domenico Sigalini – presidente del COP

Viaggiare è una delle metafore più pregnanti della vita dell’uomo. La dimensione spazio-temporale del nostro vivere viene pienamente coinvolta e rappresentata dal viaggiare. Il pellegrinaggio del nostro essere nel mondo è capace di esprimere la transizione e la trasformazione: la morte, la vita, i momenti della vita sociale: il trapasso, la vita quotidiana, i riti di passaggio. Vivere è camminare sempre verso una meta. Meta ha connessioni linguistiche con il termine limite. C’è un limite al nostro viaggio? O c’è alla fine uno sfondamento? Si va linearmente verso la meta, oppure ci si smarrisce tra le onde del mare o le dune del deserto o negli intrighi della selva? Si procede circolarmente fino a tornare sugli stessi passi o si arriva a un capolinea, inteso come capolimite? E’ importante allora indagare circa la meta. Insomma si tratta della nostra vita, non di un trekking qualsiasi.

Il viaggio è sofferenza e punizione Gli antichi vedevano il viaggio come sofferenza o addirittura come punizione. Il viaggio è un mutamento che spoglia, riduce e logora chi lo compie.. E’ troppo intrigante vedere nelle stesse parole che dicono viaggio anche il termine fatica:  travel e travail, to fare e to fear (il timore del rischio)

Il viaggio è penitenza: Adamo ed Eva sono cacciati dall’Eden; a loro viene ingiunto di viaggiare e faticare; la loro partenza spezza i legami tra il peccatore, il luogo e le occasioni del peccato ed è una maniera per lasciarsi la colpa alle spalle.

Il viaggio è conquista di libertà. Nel medio evo chi voleva liberare un suo servo lo doveva dotare di una arma, portarlo a un crocevia e mostrargli che tutte le strade erano aperte davanti a lui. Il divieto di viaggiare era segno di schiavitù. Allora quelle fatiche e sofferenze, rischi e pene che comporta il viaggio diventano elementi necessari per conquistare libertà.

Camminare è sempre verso una meta? Ma quale è la meta del nostro viaggiare?

Il viaggio di Ulisse

Il poema epico di Ulisse è una rappresentazione di un modo molto comune di affrontare il viaggio; lì il viaggio è un ritorno a casa: le peripezie che affronta si susseguono solo per essere superate fino al completo ritorno: tutto si chiude tornando al punto di partenza. Di Ulisse si dice che seduto sulla riva del mare: i suoi occhi non erano mai asciutti di lacrime. Gli si consumava la dolce vita così, sospirando il ritorno… Non altro male è maggiore ai mortali dell’andar vagabondo, dirà al suo giungere in porto. E’ questa la meta del viaggio della nostra vita? E’ tipico di un viaggio la triste esperienza del dimenticare la meta, sperimentare che il ritorno non si avvera perché si è rimasti irretiti, smarriti, accalappiati da distrazioni e si dimentica da dove siamo partiti. Chi siamo? da dove veniamo? Si domandavano già i primi filosofi.

Dirà Kafka che del viaggio interpreta soprattutto lo smarrimento: Io sono qui, non so altro, non posso fare altro. Il mio battello è senza timone, va con il vento che spira nelle regioni più basse della morte. Sono sempre in movimento, ma quando prendo il massimo slancio e già si illumina la porta di lassù, mi sveglio nel mio vecchio battello, tristemente finito in chissà quali acque terrene.

Il viaggio privato della possibilità di finire diventa un eterno vagare. Allora diventa un caso serio; viaggiare sì, ma verso dove? Il destino è un eterno ritorno? il viaggio sarà senza qualità, senza meta un errare continuo in un labirinto mortale o peggio ancora immortale?

Il viaggio del popolo ebreo

E’ un viaggio senza ritorno, verso la terra promessa. E’ sostanzialmente un esodo: la nostra vita è andare verso, uscire da ciò che è proprio, dalla terra; è una uscita radicale. In qualsiasi momento bisogna essere pronti a mettersi in cammino, perché uscire è una esigenza alla quale non ci si può sottrarre. Abramo, felicemente proprietario a un certo punto rompe e rinuncia. Gli ebrei a un certo punto intraprenderanno l’esodo e questo farà di loro un popolo: un camminare oltre, fuori, lontano, senza possibilità di ritorno. Il deserto è un mare di sabbia sulla cui superficie, increspata dal vento, si disegnano le onde. Nel deserto come nel mare tutte le vie si aprono, solo per richiudersi alle spalle, tutte le strade si confondono, Ogni volta lo trasforma e non lo restituisce uguale, non c’è mappa che lo può descrivere. E’ un camminare senza meta nella certezza della meta senza cammino.

L’ebreo non conosce ritorno. E’ sempre orientato a una terra promessa e da questa promessa senza fine nasce una attesa assoluta, sciolta dalla meta. L’esodo poi diventerà un esilio che farà nascere ansia, insicurezza, infelicità, ma soprattutto speranza e sarà questa a definire il futuro del popolo.

Il viaggio del cristiano

Per un cristiano però la promessa che sta all’orizzonte c’è. E’ una novità imprevedibile, è pronta a mostrarsi, è all’orizzonte, ma è. Non siamo su un battello ebbro che taglia gli ormeggi e salpa senza pilota per rotte indefinite, non siamo partiti per tornare, la nostra patria, al casa, la vera nascita non è prima, ma dopo. Il nostro futuro non si inarca verso il passato, noi proiettiamo la nostra vita in avanti non abbiamo nostalgia (nostos algìa), passione, dolore perché siamo tesi a un ritorno, ma siamo fatti di desiderio. Noi non ci ri-voltiamo, ma ci ri-volgiamo. Allora il nostro viaggio diventa un pellegrinaggio. Il viaggio è esplorare, muoversi sulla terra, restare in una superficie piana senza verticalità, il pellegrinare invece è scalare una montagna, porta alla scoperta, permette di accedere a qualcosa di nuovo, originale inatteso, apre alla libertà, va oltre le costrizioni contingenti per aprire a uno spazio senza confini, immagine di una spazio interiore.

Essere pagani vuol dire fissarsi, insediarsi in virtù di una conquista, di una abitazione, che ti fa consistere la vita nel possedere ciò su cui abiti. Andare, viaggiare, camminare, essere pellegrini invece è dire che il possesso non ci basta. Che vogliamo andare oltre, che aspiriamo a qualcosa di inedito, di sorprendente. E la nostra sorpresa è Cristo, è la vita oltre la morte, è la bellezza di Dio, la sua grande bontà, la sua misericordia.

Tratto da Orientamenti pastorali 10(2024), EDB. Tutti i diritti riservati.