Giulio Albanese – direttore dell’Ufficio della cooperazione missionaria della diocesi di Roma

Il Giubileo è tradizionalmente un tempo privilegiato per la remissione dei debiti. Si tratta di un tema estremamente rilevante per quanto concerne l’agognato riscatto dei poveri relegati nei bassifondi della storia contemporanea. Emblematica è la situazione del continente africano, la cui economia è sempre più in sofferenza a causa del debito pubblico. È un fenomeno che si procrastina ciclicamente nel tempo, seguendo la perversa logica del «debito che chiama altro debito». Molti ricorderanno che l’Africa attraversò una devastante crisi debitoria – denunciata a squarciagola dal mondo missionario d’allora – dagli anni Ottanta fino a quando, due decenni or sono, grazie al progetto Highly Indebted Poor Countries (HIPC), a opera del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale (BM), una trentina di paesi a basso reddito della fascia subsahariana poterono ottenere una riduzione del debito (circa cento miliardi di dollari). A questo programma se ne aggiunse un altro, la cosiddetta Multilateral Debt Relief Initiative (MDRI). Queste iniziative – scaturite anche a seguito dell’esplicita richiesta, formulata in occasione dell’Anno santo del 2000 da san Giovanni Paolo II, di cancellare o almeno ridurre il debito dei paesi poveri – suscitarono grande euforia perché consentirono a molti governi africani di riprendere fiato, accedendo a prestiti insperati.

Purtroppo, si verificò ben presto la tendenza, da parte dei governi africani, di sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati – assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity – molto più oneroso e a breve termine. Ecco che allora il debito di cui sopra è stato letteralmente finanziarizzato con il risultato che il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di rifinanziamento più elevati, con il risultato che la cifra assoluta del debito ha raggiunto i 1140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata, se raffrontata al valore complessivo del PIL africano, che è di circa tre trilioni di dollari. Per avere un confronto, basti pensare che quello dell’Unione Europea è di 16 trilioni e mezzo. È evidente che, di fronte a questo scenario, occorre mantenere l’attenzione internazionale sulla necessità di trovare una soluzione al problema del debito africano, vista la fragilità in cui versano varie economie nazionali nel contesto odierno. Infatti, l’impennata dei tassi d’interesse a livello globale rende sempre più difficile la ricerca di fonti di finanziamento alternative per molti paesi africani che stanno testando i limiti della capacità dei propri mercati nazionali per ovviare alla mancanza di fondi internazionali. Qui le responsabilità ricadono sia sulle classi dirigenti locali, ma anche sulle stesse istituzioni finanziarie internazionali, le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing, vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate «senza se e senza ma», per arginare il debito. Si tratta di un affare colossale essendo, in genere, le monete locali fortemente deprezzate. La questione di fondo è che a dettare le regole del gioco in questo scenario è la finanza speculativa, che considera inaffidabile un paese pesantemente indebitato, e di conseguenza lo emargina di fatto dai mercati finanziari internazionali, costringendolo a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i paesi economicamente avanzati. Questo si traduce per i paesi africani non solo nell’assenza di un welfare degno di questo nome, ma anche d’infrastrutture (strade, scuole, ospedali) necessarie sia alla lotta contro la povertà sia alla creazione di condizioni atte ad avviare lo sviluppo il quale, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto. Se da una parte è vero che la crisi è mondiale – lo scorso giugno si calcolava che il debito globale, pubblico e privato, fosse pari a 300mila miliardi di dollari, cioè il 350 per cento del PIL mondiale; nel 1999 era di 200mila miliardi – dall’altra occorre tenere presente che sono i paesi africani quelli maggiormente sotto pressione.

Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 paesi vulnerabili, molti dei quali africani, che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca mondiale sostiene che il 60% dei paesi poveri è diventato debitore ad alto rischio. Lungi dal voler essere catastrofisti, è bene rammentare che, in linea di principio, i debiti non sarebbero un problema se servissero a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il problema viene palesemente alla ribalta quando sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale; in questi casi, crescono in maniera sproporzionata, penalizzando i ceti meno abbienti. La vera sfida, guardando al futuro, riguarda la messa a punto di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione. Da questo punto di vista, siamo ancora in alto mare, perché i grandi attori internazionali si limitano o a ridurre il valore attuale netto del debito tramite l’estensione della data di maturazione delle obbligazioni, sospendendo momentaneamente il pagamento d’interessi, o attraverso il cosiddetto haircut, che consiste nel taglio del valore nominale del debito. Questi provvedimenti servono, alla prova dei fatti, a dilazionare il problema senza affrontarlo in modo sistemico. Sarebbe auspicabile, pertanto, che fosse preso in considerazione l’Oeconomicae et pecuniariae quaestiones, vale a dire il documento della Santa Sede sul discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario pubblicato il 17 maggio del 2018 dalla Congregazione per la dottrina della fede e dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Nel testo si legge tra l’altro che «si sente la necessità di intraprendere una riflessione etica circa taluni aspetti dell’intermediazione finanziaria, il cui funzionamento, quando è stato slegato da adeguati fondamenti antropologici e morali, non solo ha prodotto palesi abusi e ingiustizie, ma si è anche rivelato capace di creare crisi sistemiche e di portata mondiale». Il documento non si limita a fare delle mere esortazioni morali, ma affronta importanti questioni come la funzione sociale del credito contrapposta ai comportamenti usurari. Analizza la pericolosità di certi strumenti economico-finanziari che possono creare rischi sistemici, «intossicando» i mercati. In particolare, i derivati, veri e propri «ordigni a orologeria», soprattutto se negoziati sui mercati non regolamentati, i cosiddetti Over the counter, più esposti all’azzardo e alle frodi.

Da notare che nel documento della Santa Sede viene anche messa in evidenza la pericolosità dei credit default swaps (Cds), quei derivati che consentono di scommettere sul rischio di fallimento di una terza parte. «Il mercato dei Cds, alla vigilia della crisi finanziaria del 2007 – si ricorda – era così imponente da rappresentare all’incirca l’equivalente dell’intero PIL mondiale». Le proposte formulate nel documento della Santa Sede sono molto concrete e vanno dalla certificazione da parte dell’autorità pubblica di tutti i prodotti che provengono dall’innovazione finanziaria alla regolamentazione del sistema finanziario; dal coordinamento sovranazionale fra le diverse architetture dei sistemi finanziari locali per arginare la deregulation all’introduzione di una clausola generale che dichiari illegittimi, con conseguente responsabilizzazione patrimoniale di tutti i soggetti a cui questi sono imputabili, quegli atti il cui fine sia l’aggiramento delle norme vigenti; dalle specifiche misure contro il «sistema bancario ombra» al contrasto alla finanza offshore, che offre grandi possibilità di evasione e di elusione fiscale. Lungi da ogni retorica, è l’unica strada da perseguire se s’intende davvero sostenere l’economia mondiale, e in particolare quella africana.

Alla luce di queste considerazioni, è più che fondato l’auspicio espresso dagli estensori della Carta di Sant’Agata dei Goti (un documento pubblicato alla fine degli anni ‘90 da un gruppo di illustri giuristi cattolici) che prima o poi l’Assemblea generale delle Nazioni Unite giunga a formulare una richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja sui principi e sulle regole applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato. L’obiettivo sperato è che si proceda alla rimozione delle cause delle perduranti violazioni dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli, determinando così un obbligo inderogabile, come peraltro già si evince dalla Carta suddetta e da numerose risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU. Ma perché ciò avvenga è necessario individuare un paese che si faccia promotore di questa iniziativa attraverso la scrittura di una bozza di risoluzione. In considerazione dell’attuale congiuntura, personalmente, propongo il Sud Africa, potenza emergente del continente africano, membro dei BRICS e paese duramente penalizzato dalla mannaia del debito. Nella consapevolezza, comunque, che sono ancora lunghi i tempi per affermare il primato del diritto dei popoli sui mercati internazionali, è necessario definire quanto prima delle strategie cuscinetto che possano portare almeno sollievo a tanta umanità dolente che sopravvive nei bassifondi della storia contemporanea.

A questo proposito, è molto interessante la proposta formulata nel 2021 dalla rete Link 2007, che associa alcune tra le più importanti organizzazioni della società civile dedite alla cooperazione internazionale per lo sviluppo e all’azione umanitaria. Con l’aiuto di esperti della finanza per lo sviluppo, hanno redatto un documento che illustra la fattibilità di un’iniziativa, già proposta tre anni fa ai paesi del G20, divenuta oggi ancor più indispensabile, soprattutto per i paesi africani. In particolare, si auspica la conversione del debito in valuta locale, un’operazione che potrebbe consentire la realizzazione di progetti sia di resilienza che di sviluppo umano e sostenibile in settori chiave e su precisi obiettivi dell’Agenda 2030, anche di fronte a un eventuale rallentamento dell’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi Ocse-Dac, coinvolgendo sia il settore pubblico che quello privato. Tale indirizzo, peraltro, potrebbe in parte sopperire alla contrazione delle rimesse dall’estero, favorendo le comunità e le fasce più bisognose della popolazione, sia in aree urbane che nelle aree rurali, soprattutto in Africa. D’altro canto – è bene sottolinearlo – una promozione degli investimenti, particolarmente con alte potenzialità demografiche come in Africa, potrebbe dare quello che in gergo tecnico viene definito boost, cioè un impulso alla crescita planetaria. L’Europa in particolare, alle prese con la questione della mobilità umana dalla sponda africana, potrebbe ricavarne un vantaggio politico e operativo nel proporre un’azione sinergica di riduzione condizionata del debito dei paesi poveri, in favore della combinazione di investimenti sostenibili e strategici. La posta in gioco è alta e l’iniziativa gode del pieno sostegno di paesi come il Kenya, alle prese con un’emergenza debitoria senza precedenti.

Considerando che sta per iniziare il Giubileo, tempo tra l’altro di remissione dei debiti, potrebbe essere – per credenti e non credenti – il momento giusto per passare dalle parole ai fatti.

Tratto da Orientamenti Pastorali 11(2024). EDB. Tutti i diritti riservati.