Giacomo Ruggeri – pastoralista
Perché non si crede (quasi) più nel consigliare
La domanda è nuda e cruda: perché sono in forte aumento i laici che abbandonano i Consigli pastorali nelle varie compagini: parrocchiali, interparrocchiali, diocesani delle Chiese in Italia? Alcuni se ne vanno sbattendo la porta, altri in forma silente cancellandosi dal gruppo whatsapp del Consiglio pastorale, altri ancora rumoreggiando da dietro le quinte e alcuni vi rimangono in modo stoico e oblativo. Il solco dell’aratro del cammino sinodale, tenacemente voluto da Bergoglio soprattutto per la Chiesa italiana, ha rivoltato e sta rivoltando corpose zolle arcaiche di un modus agendi della pastorale parrocchiale così ataviche che i frutti del medesimo sinodo si coglieranno (forse) tra decenni. Non è pessimismo il mio, ma è quel realismo che connota ogni forma del discernere. L’aratro del cammino sinodale scalfisce, ad oggi, la superficie del pensiero e dell’azione ecclesiale perché il resto della terra sommersa, ovvero la gente di città e paesi, non sa nemmeno cosa sia il cammino sinodale e spetta a ciascuno di noi declinarlo in diverse parole, prassi, pensieri. Il linguaggio sinodale va ‘volgarizzato’, ovvero reso accessibile alla gente. Perché esso è un linguaggio e una grammatica tutta ad intra della Chiesa. Non solo: anche all’interno delle Chiese diocesane italiane il termine sinodalità riverbera in molteplici modi e variegate forme perché è una inedita prassi conosciuta, ma assai poco esercitata.
Ministero sacramentale e competenze decisionali di settore
Da come si dispongono le sedie per la riunione del Consiglio pastorale (parrocchiale e diocesano) già si capisce l’imprinting di chi comanda e di chi esegue. Quando c’è il parroco nel tavolo da un lato e le sedie, di fronte, per i laici dall’altro, c’è poco da parlare di sinodalità. La forma è sostanza. Certo, non saranno solo le modalità logistiche a far entrare nella normalità lo stile del discernere in comune, ma tutto serve e concorre a renderlo come prassi culturale e di pensiero sempre più diffuso. Se il vomero del Sinodo per la Chiesa in Italia ha affondato in profondità la sua lama nella granitica terra della prassi pastorale, la grossa zolla che emerge rovescia e porta alla luce stili parrocchiali arcaici duri e rigidi. Per questo il contadino sa bene che dopo l’aratro è necessario che la pioggia ammorbidisca il terreno e, a seguire, l’estirpatore che frantuma e raffina il terreno atto ad essere seminato con la nuova semente.
La narrazione biblica ben conosce la sapienza dell’agricoltore e del prendersi cura della terra. Ora che il Documento finale[1] del Sinodo per volere di papa Francesco partecipa del suo Magistero non con valore normativo ma dando delle linee di orientamento, alle diocesi e alle parrocchie italiane di città e di montagna spetta il compito di lavorare e preparare il terreno con uno stile di governo anch’esso inedito, ma necessario. Dato per assodato l’esercizio del ministero prettamente sacramentale spettante al sacerdote e al diacono, si apre un vasto mondo di competenze, ruoli, incarichi che sino ad oggi sono in mano ancora al parroco. La verticalità depotenzia la sinodalità. Se il deliberativo continua a rimanere nelle sole mani del parroco, e il consultivo nelle sole mani dei laici, il Sinodo è già chiuso in archivio e c’è poco da dire. Al contrario, invece, se la prassi deliberativa – sempre con il parere del parroco che lo vede seduto in cerchio nel Consiglio pastorale – inizia ad essere affidata a persone professionalmente competenti e che per mestiere lo svolgono di professione, allora l’acqua del Sinodo inizia ad aprirsi un varco nella roccia. Pensiamo – a titolo esemplificativo – all’economia e alla gestione degli immobili di appartenenza alla parrocchia, alle norme relative alla sicurezza dei locali parrocchiali e dell’oratorio, alla questione di case di riposo di proprietà della parrocchia dove il parroco, sovente, è presidente, agli asili e scuole materne sempre afferenti alla parrocchia, ecc. Ora, al n. 92 del Documento finale si legge: «nella Chiesa la deliberazione avviene con l’aiuto di tutti, mai senza l’autorità pastorale che decide in virtù del suo ufficio. Per questa ragione la formula ricorrente nel Codice di diritto canonico, che parla di voto “solamente consultivo” (tantum consultivum), deve essere riesaminata per eliminare possibili ambiguità. Appare quindi opportuna una revisione della normativa canonica in chiave sinodale, che chiarisca tanto la distinzione quanto l’articolazione tra consultivo e deliberativo e illumini le responsabilità di coloro che nelle diverse funzioni prendono parte ai processi decisionali».
Consiglio di consiglieri per competenze e professionalità
È un fatto oramai assodato che l’espressione ‘pastorale’ è un coacervo indistinto. Tra pastoralisti è di comune convenire la ridefinizione costante del termine ‘pastorale’ (è tutto è niente), soprattutto se, per non essere degli alieni, dobbiamo e vogliamo tener in debita osservazione, e con saggio ascolto, quanto arriva dai repentini mutamenti antropologici, sociali, culturali. Il noto adagio evangelico «dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», nel contesto del nuovo Dna genetico-ecclesiale del Consiglio pastorale che si dovrà generare, alla luce del Documento finale significa, in primis, cambiare e differenziare la sostanza: distinguere tra ciò che è specifico del sacerdote e lo sappia fare bene e, soprattutto, ritorni a riappropriarsi di ciò che è suo (ben celebrare, ben accompagnare, ben predicare, ben pregare), da ciò che è materia di laici professionisti. Al nuovo Consiglio pastorale parrocchiale e diocesano sinodale servono consiglieri per competenze e per professionalità, dove la voce deliberativo è frutto del comune consultare, ma chi poi segue e porta avanti la questione pratica è il professionista. Se al Vescovo e/o parroco «spetta in particolare all’autorità definire con chiarezza l’oggetto della consultazione e della deliberazione, nonché il soggetto a cui compete l’assunzione della decisione; identificare coloro che devono essere consultati, anche in ragione di competenze specifiche o del coinvolgimento nella questione; fare in modo che tutti i partecipanti abbiano effettivo accesso alle informazioni rilevanti, in modo da poter formulare il proprio parere a ragion veduta» n. 93 del Documento finale. Non è, però, solo una questione di cambiare le persone, ma si tratta di mutare qui ed ora nell’inedito pensare culturale ed ecclesiale e nei processi mentali che si avviano con iniziali passi da portare avanti con perseveranza. Il nemico (Satana) si travestirà come angelo di luce e di bene[2] per far desistere il Vescovo, il parroco e i laici dal procedere su quest’inedita strada, per ritornare all’usato sicuro, ma fallimentare. Per questo il nuovo Consiglio sinodale dei consiglieri per competenze e per professionalità dovrà essere accompagnato da persone esperte nella spiritualità (particolarmente ignaziana) che aiutino a distinguere, avvertire, riconoscere, discernere gli spiriti che in esso si agitano.
Tratto da Orientamenti Pastorali 12(2024). EDB. Tutti i diritti riservati
[1] A conclusione dei lavori della Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 2-27 ottobre 2024, Città del Vaticano.
[2] 2 Cor, 11,14: “E non c’è da meravigliarsene, perché anche Satana si traveste da angelo di luce”.