Giovanni GIUDETTI – Pontificia Università Lateranense

L’espressione «flussi migratori», usata sempre di più nel linguaggio comune e giuridico, individua un movimento, continuo e ripetuto nel tempo, di persone, un fluere che descrive a pieno come si generino «correnti» di soggetti che si spostano da un Paese a un altro.

Chi lascia la terra d’origine per propria volontà e scelta o perché obbligato, promuove forze di propulsione o attrazione che creano elementi sociali e giuridici complementari per tutti i soggetti appartenenti a ogni singolo apparato nazionale.

Tutela e disciplina dei flussi migratori

Nel quadro giuridico europeo e internazionale si è cercato da sempre di disciplinare le diverse caratteristiche e condizioni dei soggetti migranti e dei flussi a essi collegati.

Tra i primi tentativi è opportuno ricordare: la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i migranti e le loro famiglie, adottata con risoluzione dell’Assemblea generale delle NU n. 45/158 del 18 dicembre 1990; in ambito regionale, la Convenzione del Consiglio d’Europa sullo statuto giuridico del lavoratore migrante in vigore dal 1983; e, in Italia, la legge n. 40 (Turco-Napolitano) e il d.lgs. n. 286 del 1998 (cd. Testo unico sull’immigrazione) rimodulato per certi aspetti dalla legge 30 del luglio 2002, n. 189 (cd. legge Bossi-Fini).

Il singolo Stato non ha dunque semplici obblighi morali di accogliere e trattare lo straniero in un determinato modo, secondo limiti e condizioni che si ispirano al diritto naturale in senso ampio, ma deve rispettare obblighi di carattere giuridico, imposti cioè da norme di diritto internazionale, sia esso consuetudinario o pattizio, cui gli organi di ogni Paese devono conformarsi.

La tutela dei diritti fondamentali della persona umana acquista certo un carattere ben preciso, ma le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori posti in gioco dalla società civile, così come evocato dal legislatore negli ultimi anni.

Proprio in questo contesto, particolare attenzione deve essere rivolta alla popolazione migrante portatrice, sempre di più, di un elevato rischio di esclusione sociale derivato dalla natura multidimensionale del fenomeno, spesso palesemente vulnerabile e in conflitto con le consolidate condizioni di cittadino regolare.

Il concetto di «cittadinanza»

I fattori giuridici, lavorativi, socioeconomici e culturali, tutti legati alla rete di rapporti del singolo con le comunità ospitanti, esercitano un’influenza negativa che produce la non inclusione.

L’integrazione è spesso intesa come sterile e rigida integrazione «nella» società invece che «della» società, a detrimento di un approccio che valorizzi anche le peculiari caratteristiche del soggetto migrante. In tal maniera si genera con l’integrazione il significato di insieme di azioni e politiche tutte finalizzate al riconoscimento di diritti e doveri per i «nuovi» cittadini, che diventano destinatari di tutele e benefici alla base del concetto stesso di cittadinanza attiva.

Occorre, a tal fine, sottolineare come l’idea di cittadinanza sia composta da un duplice rapporto: quello di dimensione verticale, caratterizzato dalla subordinazione dell’individuo allo Stato, e quello di dimensione orizzontale, che si concretizza attraverso l’appartenenza dell’individuo alla comunità nazionale.

L’acquisizione della cittadinanza

I criteri relativi all’attribuzione della cittadinanza sono di acquisizione per discendenza, iure sanguinis, e per nascita diretta sul territorio, iure soli. Altri criteri di attribuzione riguardano quelli per comunicazione in caso di matrimonio o adozione, iuris communicatio, di naturalizzazione per concessione della stessa per via di un apposito provvedimento amministrativo dello Stato e, infine, per beneficio di legge di chi versa in particolari condizioni previste dal legislatore.

La concessione della cittadinanza è frutto di un provvedimento finalizzato al riconoscimento definitivo dell’appartenenza dello straniero alla comunità nazionale. Inoltre, è opportuno ricordare come il concetto di nazionalità, invece, definisca questo attraverso lo stretto legame con la lingua, la cultura, la tradizione e la religione, l’individuo viene legato a un gruppo, considerato come naturale, che può coincidere o meno con lo Stato.

In sostanza, nel procedimento di esame per il conferimento della cittadinanza non entra in gioco soltanto l’interesse privato, ma vengono direttamente interpellati gli aspetti generali e le ragioni che inducono il soggetto migrante all’abbandono della società di origine.

A tal proposito, un requisito particolarmente importante è quello dell’integrazione sociale. Infatti, è prevista una valutazione riguardo al percorso culturale e di inserimento intrapreso dallo straniero che aspira a far parte della nuova collettività ospitante, questo anche in ragione dell’irrevocabilità dello status, una volta riconosciuto. Il giudizio sull’integrazione, comunque, non esclude il mantenimento con le relative origini e tradizioni ma va a incrociarsi con i diversi precetti di accettazione delle clausole del Paese ospitante.

Anche il requisito reddituale viene valutato in sede di concessione della cittadinanza; le capacità economiche dei singoli devono essere sufficienti a garantire l’autosostentamento e, più indirettamente, rappresentano un indice indicativo dell’integrazione (o della eventuale possibilità di integrarsi) del soggetto migrante.

Il mero requisito della residenza può essere di per sé sufficiente a giustificare la concessione della cittadinanza, è stabilita però una durata minima del periodo. Nel caso di cittadini europei è indicato in quattro anni, invece, l’apolide può richiedere il riconoscimento della cittadinanza dopo almeno cinque anni di residenza e, lo straniero, dopo dieci anni di residenza legale e continuativa.

Verso un nuovo concetto di cittadinanza

Determinare se di fronte a un determinato Stato si è cittadini o stranieri non ha smesso di definire e condizionare la vita di migliaia di persone. Pertanto, bisogna costruire un nuovo concetto di cittadinanza in una dimensione esclusiva; ma anche sviluppare le capacità sociali di sistemi che siano in linea con la protezione delle categorie di soggetti vulnerabili.

La questione riguardante l’esclusione dei migranti dallo spazio giuridico, politico ed economico dello Sato nazionale, costituito dall’insieme dei soggetti pienamente titolari dei diritti di cittadinanza, provoca potenzialmente la possibilità di chiudere alcune categorie di essere umani in uno spazio privo o carente di elementi giuridici e sociali utili alla salvaguardia dei diritti fondamentali. Uno straniero privo di garanzie giuridiche cade nella condizione di non-persona.

Attualmente il concetto di cittadinanza dovrebbe tornare a ricoprire il significato originario, ovvero quello di ruolo chiave e attivo di promozione, di progresso e inclusione di nuovi soggetti, collegando di nuovo i diritti di cittadinanza ai principi e ai valori universali dei diritti umani.

In conclusione, occorre evidenziare come valori propri della società, della cultura e gli stessi valori dell’Unione si siano evoluti e sviluppati con il passare del tempo anche grazie ai processi di integrazione e di allargamento fautori da sempre di un processo di mescolanza, fisiologico e naturale, tra culture.

Il concetto di identità nazionale non può essere utilizzato per escludere, essendo un concetto fluido, ampio e continuamente aperto a nuove evoluzioni.

La società civile attuale, articolata, multietnica e multiculturale, deve sempre più essere volta alla condivisione di valori umanamente condivisi tra le persone e le istituzioni nazionali responsabili dell’amministrazione attiva del concetto di cittadinanza e delle strutture proprie che regolano e favoriscono il buon andamento dell’apparato sociale ed economico del Paese.

 

(tratto da Orientamenti Pastorali 1/2[2018], tutti i diritti riservati)