Giuseppe Alcamo – presbitero della Chiesa di Mazara del Vallo, docente stabile alla Facoltà Teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista” 

I mezzi di comunicazione, nelle passate settimane, ci hanno informati su quanto avvenuto sulla Costa Smeralda, tra ragazzi e ragazze della “società perbene”, in una notte d’estate del luglio del 2019. Ragazzi appena ventenni che cercano il divertimento e quindi la felicità attraverso la droga, l’alcol, il sesso di gruppo e quindi la violenza sessuale.

Anche le più accreditate testate del giornalismo italiano si sono attardate a descrivere, con dovizia di particolari, quello che è stato denunciato come violenza e stupro sessuale, da una delle ragazze, e descritto, invece, dai ragazzi come atti e gesti compartecipati in forma attiva e responsabile. Per alcuni lo stesso fatto viene vissuto come serata meravigliosa da ripetere, per altre viene denunciato come un incubo e una tragedia da cui non sono riusciti a sfuggire.

I genitori, a loro volta, intervengono pubblicamente in questa animata querelle, per difendere ognuno il proprio figlio/a, recriminare verso lo Stato e chiedere giustizia o protezione. Quello che dovrebbe essere un “lutto” familiare viene sbandierato come evento dai risvolti politici e culturali, chiedendo implicitamente a tutti di schierarsi e di prendere posizione e magari poter influenzare il giudice per un verdetto iniquo.

Così come i fatti vengono presentati, sembra che il problema vero sia sul “consenso” o meno delle ragazze, e non sulla logica e lo stile di vita che tutti questi ragazzi di “famiglie perbene” hanno assunto e vivono. La casa di famiglia diventa un’alcova per dare sfogo agli istinti più beceri, ad insaputa dei genitori che abitano la medesima casa, almeno così dicono i giornali. Massimo Troisi, in una intervista fatta da Pippo Baudo, parlando di un noto politico del secolo scorso, lo definisce “innocente, ingenuo”, perché non si accorgeva di nulla di tutto quello che di illegale avveniva attorno a Lui. Forse ancora una volta, dobbiamo constatare con Troisi che siamo di fronte a genitori “innocenti ed ingenui”.

Le preoccupazioni di tipo giuridico oscurano totalmente tutti gli altri risvolti della questione, che a mio giudizio presentano aspetti veramente raccapriccianti. Senza entrare nel merito sulle responsabilità giuridiche che vanno accertate nel tribunale e non sui giornali, permettetemi di leggere, quanto viene raccontato, da un altro punto di vista e di introdurre qualche nuovo elemento che, esulando dal caso specifico, faccia riflettere quanti hanno a cuore il futuro dell’umanità e il benessere della nostra società.

Pur tenendo presente che i ragazzi, sin dalla prima adolescenza, oggi rivendicano un’autonomia che sfugge al controllo dei genitori e che la cattiveria umana può insinuarsi dentro il cuore di tutti, non è fuori luogo chiedersi: chi ha indirizzato questi ragazzi in questa logica di ricerca di godimento senza scrupoli, di libertà che coincide con il libertinaggio, di mancanza di senso nella vita, di sesso senza dignità? Chi sono gli educatori di questi ragazzi che li hanno introdotti in una dimensione di vita che a dir poco risulta balorda? Chi sono questi illuminati educatori che hanno fatto credere ai ragazzi che tutto è possibile e che la vita va vissuta con la logica dell’usa e getta?

L’esperienza insegna e gli studi pedagogici lo dimostrano che nessuno diventa uomo da solo e che tutti abbiamo bisogno di essere educati; l’apporto degli altri è determinante per diventare quello che si desidera essere; la fiducia e il riconoscimento degli altri, la relazione costante e critica sono necessari per maturare come uomini e compiere scelte personalizzate. Per crescere e maturare, volenti o nolenti, siamo dipendenti gli uni dagli altri.

La necessità di educare si fonda sull’evidenza che l’essere umano non è dotato di tutto ciò di cui ha bisogno per diventare se stesso, che non gli basta una crescita biologica, un adattamento psicologico e una protezione sociale. L’uomo, ogni uomo, per diventare tale, ha bisogno di relazioni che lo risveglino alla coscienza di se stesso, che lo avviino alla vita culturale, morale e spirituale, cioè lo introducano nel mondo e lo abilitino a farne esperienza sensata.

In proposito, Romano Guardini ha scritto: «[…] Educare significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso […]. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria […]. Con quali mezzi? Sicuramente avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimoli e metodi di ogni genere. Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene accesa solo dalla vita […]. Da ultimo, come credenti, diciamo che educare significa aiutare l’altra persona a trovare la sua strada verso Dio. Non soltanto che abbia le carte in regola per affermarsi nella vita, bensì che questo ‘bambino di Dio’ cresca fino alla ‘maturità di Cristo’. L’uomo è per l’uomo la via verso Dio».[1]

Per una corretta relazione educativa la persona dell’educatore è, quindi, coinvolta in un rapporto di vicinanza, di fiducia e di empatia con l’educando; ciò richiede nell’educatore la disponibilità ad offrire uno stile di vita, in una logica di gratuità e in un contesto di libertà.

Ogni rapporto educativo implica per l’educatore una forma di “generazione”, perché aiuta a far crescere, manifesta la capacità di generare vita. Educare significa tramandare valori, stili di vita, ragioni di fiducia negli uomini e di speranza verso il futuro. Educare significa conservare e tramandare la sapienza di vita, ossia la verità, la bontà, la bellezza che le generazioni passate hanno espresso per accrescerle e rinnovarle.

Un vero processo educativo non si limita quindi alla sfera dell’istruzione, alla trasmissione di notizie e di conoscenze strumentali sul “come” delle cose; non è nemmeno un semplice “addestramento” per l’assunzione di comportamenti socialmente accettabili. Nel processo educativo si investe e si coinvolge la totalità della vita, sia degli educatori sia degli educandi, dalla sfera affettiva a quella cognitiva, dagli atteggiamenti ai comportamenti. Un corretto processo educativo inizia alla relazione buona e familiare, all’accoglienza affettuosa e alla fiducia reciproca, all’ascolto rispettoso e attento, all’autocontrollo e al dominio dei propri istinti. Questo nei confronti dei ragazzi in crescita è un compito primariamente dei genitori e poi di tutti gli altri educatori.

In vicende dolorose come quelle che ci vengono raccontate, sempre più presenti in tutti i luoghi e ceti sociali, quello che emerge è l’assenza di veri educatori, che sappiano accompagnare i giovani alla scoperta della vita, in tutte le sue dimensioni, anche verso il Trascendente.

Una assenza colpevole, anche se forse inconsapevole, perché è una mancanza di assunzione di responsabilità educativa, è un rifiuto a mettersi in gioco, a scommettere sul futuro, a creare tutti i presupposti per una vita felice. Un’assenza che si rivela, per noi adulti, come un vero tradimento verso coloro che ci vengono affidati per farli crescere bene.

Per tutti gli educatori – genitori, docenti, catechisti, preti, mister, insomma tutti gli adulti che si relazionano in vario modo con i giovani – comportamenti come quelli descritti dai giornali, sono l’indice di un fallimento, prima che dei ragazzi, degli adulti, che dovrebbe mettere in crisi ed indurre ad una seria verifica per una qualificata presenza e una vera riprogettazione educativa.

I ragazzi, di cui faccio riferimento all’inizio del mio intervento, sono stati indicati nei giornali come figli della “società perbene”. Ma di quale “bene” stiamo parlando? Solo del benessere economico? Perché in tutto il resto di “bene” c’è veramente poco o niente.

I figli della società perbene, sono quelli che si prodigano per fare il servizio civile, quelli che si impegnano nel volontariato, quelli che si adoperano per dare un loro contributo per il bene comune, quelli che si costruiscono un futuro con il proprio sacrificio, l’impegno costante, rischiando di persona, di cui grazie a Dio le nostre città sono piene. Questi e solo questi devono essere riconosciuti pubblicamente come figli della “società perbene”.

Tutti gli altri, che sono una minoranza, dovrebbero essere chiamati “figli abbandonati” o “figli sfortunati”, perché non hanno avuto la chance di incontrare persone concrete e contesti storici che li educhino al rispetto delle persone, alla ricerca della giustizia e della verità, alla disponibilità a mettersi al servizio del più fragile. La più grande sfortuna che un ragazzo può avere nella vita è quella di essere abbandonato a se stesso, anche se è fornito di carte di credito, perché senza qualcuno che lo aiuti a diventare uomo il suo cammino è più irto e difficile. Dobbiamo tutti esserne convinti: questa è una vera sventura! Le cronache di abusi e di violenze sono il segno concreto che senza educatori e senza educazione si diventa come bestie, in balia di un istinto che non si pone alcun limite.

Allora, ritornando al discorso iniziale, il problema non è il “consenso” delle ragazze, come vogliono far credere, ma la latitanza degli educatori e la mancanza di un progetto educativo, che aiuti a crescere, ragazzi e ragazze, non solo nel corpo, ma anche in dignità, rispetto, dialogo, servizio, amore…

 

[1] R. Guardini, Persona e libertà, Editrice La Scuola, 1987, pp. 222-223.