Erio Castellucci, arcivescovo abate di Modena – Nonantola e vescovo di Carpi

Il Vaticano II non ha trattato l’ecclesiologia in chiave di «sinodalità», così come la intendiamo oggi; e non ha approfondito la riflessione sulla chiesa locale-particolare, ma l’ha solamente delineata. Eppure l’ultimo concilio ha posto le basi per un’ecclesiologia locale di tipo sinodale, sulla base di un doppio fondamento: la riscoperta della radice eucaristica della Chiesa e la dottrina della sacramentalità e collegialità episcopale.

Avvenuta soprattutto all’interno del movimento liturgico ed ecumenico, la riscoperta della radice eucaristica della Chiesa e la dottrina della sacramentalità e collegialità episcopale va attribuita in campo cattolico soprattutto alle ricerche storiche di Hertling e agli studi patristico-medievali di de Lubac. Ma sul concilio influì ancora di più la riflessione del teologo ortodosso N. Afanassiev, che pubblicò nel 1960 il saggio in francese «La Chiesa che presiede nell’amore», in cui contrapponeva la visione romana universalista a quella ortodossa eucaristica; la prima – sosteneva l’autore – non è precedente il sec. III, mentre la seconda è attestata già nel Nuovo Testamento; optando ovviamente per l’ecclesiologia eucaristica, Afanassiev anticipava alcune idee poi riecheggiate nei dibattiti e accolte in parte anche nei testi conciliari: basti pensare che è l’unico teologo contemporaneo ortodosso citato esplicitamente, e per ben tre volte, negli atti conciliari.

È però certamente vero che sulla teologia conciliare della chiesa locale ebbe un notevole influsso anche il rinnovamento della dottrina sull’episcopato, che condusse al superamento della visione centralista romana da due punti di vista: la definizione della sacramentalità episcopale sottraeva il ruolo del vescovo alla pura e semplice luogotenenza del papa; l’affermazione della collegialità episcopale, a sua volta, bilanciava l’attribuzione troppo unilaterale dei poteri ecclesiali al romano pontefice.

Il passo conciliare che fece da pioniere è SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo, circondato dal suo presbiterio e dai ministri». La chiesa locale è qui valorizzata a partire dalla sua natura sacramentale ed eucaristica.

La relazione chiesa particolare/Chiesa universale non è di somma o sottrazione ma di reciproca immanenza. Tutta la Chiesa è presente nelle singole chiese, le quali sono in tal modo immagine della catholica; dalle chiese particolari alla Chiesa universale, tutte le chiese conducono a formare la Chiesa universale, poiché è a partire da esse che si forma concretamente la catholica. È probabile che i redattori, con queste formule ben soppesate, intendessero mantenere l’equidistanza tra la tendenza «ortodossa» a enfatizzare «in quibus» fino all’autocefalia e la tendenza protestante a sottolineare «ex quibus» fino al congregazionalismo.

Un’altra espressione conciliare dell’ecclesiologia eucaristica si incontra in LG 26: «La Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali di fedeli, le quali, aderendo ai loro pastori, sono anche esse chiamate chiese del Nuovo Testamento». La sussistenza della Chiesa di Cristo nelle comunità locali è ravvisata principalmente nella celebrazione eucaristica, che rappresenta il culmine della predicazione e la sorgente dell’unità.

Esiste anche un terzo motivo, oltre a quello eucaristico e a quello episcopale, che ha portato il Vaticano II a valorizzare, benché in forma abbozzata, la chiesa locale: è il motivo della inculturazione. Abbandonato lo schema classico delle «missioni» intese come assorbimento delle singole culture in quella occidentale, frettolosamente identificata con il cristianesimo, un numero crescente di studiosi nel sec. XX mette in evidenza come il cristianesimo fin dalle origini abbia saputo valorizzare gli elementi culturali che l’annuncio del vangelo incontrava nei diversi territori. Le comunità locali, che si andavano formando, plasmavano l’annuncio sulle singole concrete situazioni, declinandolo a seconda delle categorie filosofiche e culturali, degli agganci religiosi e spirituali, delle problematiche sociali e umane che incontravano: il fenomeno sarà poi chiamato, solo dopo il Vaticano II, «inculturazione». Il medesimo vangelo è accolto, proclamato e vissuto in ciascuna chiesa particolare, che in tal modo stabilisce una comunione con tutte le altre chiese, le quali accolgono, proclamano e vivono lo stesso vangelo; ma ogni Chiesa, proprio perché radicata in differenti contesti umani e da essi alimentata, lo recepisce, predica e vive in modi diversi. Per l’importantissimo testo di AG 22 – che parla direttamente delle «giovani chiese» ma dice cose valide per tutte le chiese – la particolarità socio-culturale della chiesa locale fa parte della sua stessa definizione teologica: «il seme, che è la parola di Dio, germogliando nel buon terreno, irrigato dalla rugiada divina, assorbe la linfa vitale e la trasforma e l’assimila, per produrre finalmente un frutto abbondante. Indubbiamente, come si verifica nell’economia dell’incarnazione, le giovani chiese, radicate in Cristo e costruite sopra il fondamento degli apostoli, hanno la capacità meravigliosa di assorbire tutte le ricchezze delle nazioni, che a Cristo sono state assegnate in eredità. Esse, dalle consuetudini e dalle tradizioni, dal sapere e dalla cultura, dalle arti e dalle scienze dei loro popoli, sanno ricavare tutti gli elementi che valgono a render gloria al Creatore, a mettere in luce la grazia del Salvatore e a ben organizzare la vita cristiana».

La chiesa particolare viene così presentata come il luogo concreto nel quale vangelo e culture si incontrano e si arricchiscono a vicenda. Così, mentre prima del concilio si tendeva a plasmare su un medesimo modello – quello europeo-occidentale – la vita e la missione di ogni singola diocesi, ora invece si persegue una pluralità di approcci al vangelo, per fecondare con esso le diverse culture e sprigionare da esso tutte le potenzialità che nasconde.

Il ruolo fondamentale dello Spirito Santo nella costruzione della Chiesa viene precisato dal concilio per quanto concerne la Chiesa universale (cf. soprattutto LG 4 e AG 4), mentre non viene svolto altrettanto approfonditamente per le chiese particolari: della novantina di riferimenti espliciti allo Spirito Santo nella LG, solo uno – al n. 13 – coniuga direttamente l’azione dello Spirito alla dimensione locale della Chiesa: un maggiore sviluppo avrebbe permesso di evidenziare l’importanza dei carismi che ogni Chiesa porta in sé per l’edificazione comune e di valorizzare come frutto dello Spirito anche le tradizioni e usanze delle singole Chiese. In ogni caso, ci troviamo di nuovo, con LG 13, di fronte a un testo di capitale importanza per la chiesa particolare: dopo il passo già sopra menzionato, il concilio prosegue: «In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità. (…) Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva».

Lo Spirito è colto qui come origine della comunione delle diversità: diversità di doni all’interno di ciascuna chiesa locale e diversità tra le singole chiese locali. Ogni chiesa, infatti, vive di doni, carismi e ministeri diversi, plasmati dallo Spirito sulla concreta situazione storica di quel territorio. I doni di cui lo Spirito fornisce una chiesa non sono identici ai doni di cui fornisce un’altra, poiché non è identica la storia di due chiese: è diverso il tessuto sociale, culturale, politico, religioso, nel quale ciascuna chiesa si innesta e nel quale svolge la sua missione.

Gli elementi fondativi di una teologia della chiesa particolare-locale, ossia l’eucaristia, il vescovo, il vangelo e lo Spirito, esprimono tutti un’ecclesiologia nella quale le singole chiese vivono una condizione di «scambio reciproco» tra di loro e con la catholica. La forma che papa Francesco ha voluto dare al sinodo in corso, sulla Chiesa sinodale, rispecchia proprio questa ecclesiologia. Tutta la Chiesa è chiamata ad ascoltarsi a livello locale – aprendosi anche a coloro che non si sentono di appartenervi – valorizzando gli apporti dei singoli luoghi, che sono «luoghi teologici». Il magistero interagisce con l’intero popolo di Dio, al quale appartiene, mettendosi in ascolto del «sensus fidelium» e dei «gemiti dello Spirito» con la disponibilità a compiere passi nuovi. Il processo è avviato, non senza incertezze, come è dei pionieri.

Tratto da Orientamenti Pastorali 6/2022. Tutti i diritti riservati