Augusto Paolo Lojudice – cardinale arcivescovo, metropolita di Siena – Colle di Val d’Elsa – Montalcino; arcivescovo-vescovo di Montepulciano – Chiusi – Pienza
C’è una nuova realtà, ancora da pochi conosciuta, che condizionerà molto il nostro prossimo futuro: quella del «metaverso». Confesso che anche io ho dovuto documentarmi su cosa fosse: una «realtà parallela», con cui saremo chiamati sempre più a confrontarci: fino a una ventina di anni fa certe cose erano pura fantascienza.
A questa complessità va ad aggiungersi il tema del linguaggio, soprattutto tra e con i giovani: i giovani stanno facendo proprio un linguaggio creato da altri e che sta sostituendo quello ordinario. Tutto ciò che facciamo e in particolare il nostro annuncio della fede è toccato, forse inficiato, da queste problematiche. Non possiamo non accorgerci e non renderci conto se la lingua che parliamo e che usiamo anche nella Chiesa è ancora comprensibile o per lo meno utile a qualcosa: penso in particolare alla catechesi dell’iniziazione cristiana. Ma noi siamo dentro questo mondo, non in un altro, e in questo siamo chiamati a portare la parola del vangelo con coraggio e dignità. Se è vero che «la realtà è superiore all’idea» non dobbiamo in nessun modo arrenderci alle contraddizioni del mondo ma gestirle, integrarle, «elaborarle» affinché non ci abbattano e ci demotivino: e questo vale per noi vescovi, per i sacerdoti, per tutti i credenti, uomini e donne impegnati nel vivere la fede. L’ascolto-dialogo che il cammino sinodale ci sta chiedendo, può essere una buona occasione per riscoprirci in relazione con tutti, credenti e non, in occasioni che dobbiamo avere la pazienza e la fantasia di inventare o reinventare per ridare uno slancio alla nostra responsabilità di portare il vangelo a tutti.
Quando si parla di dialogo «intra ecclesiale» parliamo di qualcosa di profondamente legato alla struttura della chiesa, alla chiesa così come l’ha voluta Gesù e non a un aspetto marginale. Anche se alcune cose sembrano scontate di fatto non lo sono.
«Ma lei dà l’elemosina?». «Sì, padre!». «Ah, bene, bene. E, mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?». «Ah, non so, non me ne sono accorto». «E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?». È uno degli aneddoti narrati da papa Francesco, che hanno stampato nelle nostre menti e, spero, nei nostri cuori, un percorso che la Chiesa ha ormai intrapreso e che continuerà, nel tempo. Ricordo con evidenza che, quando fu pronunciato il nome del card. Bergoglio, appena dopo la sua elezione a vescovo di Roma, quel 13 marzo 2013, ebbi un sussulto; avevo sentito parlare di lui da un giovane seminarista, che lo aveva conosciuto nei suoi viaggi a Roma, presso il collegio argentino. Non lo avevo mai incontrato, ne avevo solo sentito parlare ma mi è sembrato di conoscerlo da tempo, di averlo quasi come «amico”. Ho percepito, senza che ne avessi alcun fondamento, che avrei avuto a che fare con lui. Ovviamente non potevo nemmeno immaginare che solo due anni dopo mi avrebbe nominato suo ausiliare per la diocesi di Roma. Avevo intuito che era presente in lui quella idea di Chiesa da me sempre immaginata ma che non avrei pensato di vedere in questa vita: una Chiesa «avanti», una Chiesa fuori dai vecchi schemi, meno formale, più attinente alla realtà, più «giovane». Ho capito che ogni cosa é a «suo tempo» … e nel momento della nomina di papa Francesco ho cominciato a comprendere che «era giunto quel tempo».
Quando la vita ti porta a confrontarti, a vivere, a incontrare, a farti carico di grandi problemi, gravi disagi, situazioni estreme, ti restano dei segni indelebili, guardi la realtà con occhi diversi. Il resto, le situazioni ordinarie, normali o anche le discussioni che possono venire fuori nella quotidianità, contesti che non riguardano problemi gravi, ti sembrano inezie, fatti di poco conto, situazioni sulle quali non val la pena nemmeno soffermarsi troppo né perder tempo. Papa Francesco, che nelle periferie di Buenos Aires ha toccato con mano tutto ciò, disagi all’interno delle baraccopoli, bambini che non possono crescere in maniera adeguata, anzi segnati fin dalla nascita da un tragico «destino», donne che subiscono violenze continue e tanto altro, è ormai impregnato da tutto ciò e continuerà a portare questo suo modo di essere in tutto il suo pontificato: pensare una Chiesa diversa, più evangelica, più radicale, più legata alla persona e al pensiero di quel Gesù di Nazareth e a come lui l’aveva voluta.
L’importanza del dialogo intra ecclesiale parte da un altro concetto fondamentale nella riflessione della fede: il sensus fidei. La dottrina del «senso della fede» è molto antica. Si è formata lungo i secoli, a partire dal mandato di Gesù e dall’esperienza dei cristiani di appartenere a un popolo, la Chiesa, raccolta da Gesù da ogni parte della terra per essere segno e strumento di salvezza mediante la testimonianza evangelica.
Il sensus fidei è uno degli aspetti che più sta a cuore a Francesco. La sua teologia del popolo emerge sempre, continuamente, anche in maniera «esagerata», secondo alcuni. Su questo papa Francesco, nel suo discorso alla diocesi (18 settembre 2021), si ferma e puntualizza varie cose: «L’esercizio del sensus fidei non può essere ridotto alla comunicazione e al confronto tra opinioni che possiamo avere riguardo a questo o quel tema, a quel singolo aspetto della dottrina, o a quella regola della disciplina. No, quelli sono strumenti, sono verbalizzazioni, sono espressioni dogmatiche o disciplinari. Ma non deve prevalere l’idea di distinguere maggioranze e minoranze: questo lo fa un parlamento. Quante volte gli “scarti” sono diventati “pietra angolare” (cf. Sal 118,22; Mt 21,42), i “lontani” sono diventati “vicini” (Ef 2,13). Gli emarginati, i poveri, i senza speranza sono stati eletti a sacramento di Cristo (cf. Mt 25,31-46). La Chiesa è così. E quando alcuni gruppi volevano distinguersi di più, questi gruppi sono finiti sempre male, anche nella negazione della Salvezza, nelle eresie. Pensiamo a queste eresie che pretendevano di portare avanti la Chiesa, come il pelagianesimo, poi il giansenismo. Ogni eresia è finita male. (…) “Ma, padre, cosa sta dicendo? I poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi che la società scarta, sono parte del sinodo?”. Sì, caro, sì, cara: non lo dico io, lo dice il Signore: sono parte della Chiesa. Al punto tale che se tu non li chiami, si vedrà il modo, o se non vai da loro per stare un po’ con loro, per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il sinodo. Il sinodo è fino ai limiti, comprende tutti. Il sinodo è anche fare spazio al dialogo sulle nostre miserie, le miserie che ho io come vescovo vostro, le miserie che hanno i vescovi ausiliari, le miserie che hanno i preti e i laici e quelli che appartengono alle associazioni; prendere tutta questa miseria! Ma se noi non includiamo i miserabili – tra virgolette – della società, quelli scartati, mai potremo farci carico delle nostre miserie. E questo è importante: che nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura!». «Perché vi dico queste cose? Perché nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi… Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza».
Bisognerà allora trovare un linguaggio comune, anzi un nuovo linguaggio che consenta di comunicare nella verità e dire senza infingimenti quello che si vive veramente, e tornare a capirsi come persone che condividono la stessa storia. La Chiesa questo linguaggio lo conosce bene, perché le è stato insegnato dallo Spirito.
Tratto da Orientamenti pastorali 7/8(2022). Tutti i diritti riservati.