Dichiarazione di intenti

Papa Francesco nel momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale (9 ottobre 2021) ha evidenziato i rischi del formalismo, intellettualismo e immobilismo.

Siamo consapevoli che lo Spirito parla a tutti i membri della Chiesa, e non una volta per tutte, ma in modo progressivo. Noi tutti battezzati siamo stati chiamati a metterci “insieme”, in ascolto della voce dello Spirito e abbiamo consegnato alla comunità cristiana opinioni, anche contrastanti, e audaci progetti di riforma mescolati alla paura e al desiderio di non cambiare nulla per il timore che si verifichino o amplifichino lacerazioni nel tessuto ecclesiastico. È proprio la diversità, sono proprio le tensioni – presenti anche nella vita della Chiesa –, a richiedere un confronto, un dialogo, cammini comuni per giungere a quel consenso, che non si identifica con un accordo unanime, un pensare tutti allo stesso modo, ma con un “sentire” assieme cosa oggi la Chiesa è chiamata ad essere e come è chiamata a svolgere la sua missione.

In questo nostro convenire ci siamo domandati come ogni percorso debba sfociare in una decisione. Ma chi decide? Come superare lo schema lineare del consultare/consigliare (dei laici) e il conseguente deliberare (dei presbiteri o dei vescovi)? C’è una strada che superi il modello “consultivo”?

L’ecclesiologia conciliare prospetta un’interazione costitutiva di comunicazione e decisione tra più soggetti – uno, alcuni (presbiteri, operatori), tutti – in modo da correlare il munus profetico e regale dei battezzati (LG 12) all’esercizio dei numera docendi e regendi ac pascendi (LG 25,17; CD 16) dei ministri ordinati. Non ci sarà, allora, sinodalità reale se non con una revisione delle dinamiche e delle strutture decisionali. La nostra 71a Settimana nazionale di aggiornamento pastorale ha voluto flettere su questo, in particolare lasciando emergere il termine “condecisione”.

 

Il significato del percorso sinodale

Abbiamo sperimentato che il sinodo non è un evento, ma un processo: si costruisce, cioè, passo dopo passo. La fase consultiva, quindi, entra a pieno titolo in tale processo: un passo avanti verso una Chiesa comunione. La questione che attualmente si sta trattando è quella della sinodalità come stile della Chiesa che rende trasparente, credibile, l’annuncio del Vangelo. Un annuncio che passa attraverso il modo di essere – vivo e reale – della Chiesa. Siamo consapevoli che tutto il popolo di Dio è convocato in un sinodo sulla forma sinodale della Chiesa, e su cosa essa comporti, oggi. Rinnovare la forma della Chiesa: rendere, cioè, più trasparente, salda, la forma comunionale della Chiesa. Affettiva ed effettiva.

Orizzonte, stile e metodo sono tre parole tenute insieme da una singola parola “sinodalità”. Ci è chiesto uno stile, che è uscire dalla frammentazione, per camminare insieme; capacità di condivisione, di ascolto, di apertura. Il metodo, è la via attraverso la quale si matura uno stile, in questo sinodo il metodo quello della conversazione spirituale. Ci poniamo in ascolto del vissuto riletto alla luce della Parola di Dio. Ascolto attivo, profondo dell’esperienza, che è posta in primo piano. Riconoscereinterpretare e scegliere, dicono il ritmo della conversazione spirituale, in cui la comunicazione avviene nell’ascolto profondo fatto nello Spirito. La conversazione spirituale è un metodo che implica il silenzio, spazio interiore che si deve attivare per accogliere. Il tutto ha a che fare con la progettazione. Non si tratta, quindi di un esercizio pio, da sagrestia. Ascoltarsi reciprocamente, verso un consenso che è un “sentire” insieme. La forma comunionale non è appiattimento ma articolazione: le singole “vocazioni” diventano intrecci. Armonia nella diversità, fatta anche di tensioni; papa Francesco usa l’immagine del poliedro, non della sfera dove tutto è livellato.

 

La categoria di “popolo di Dio”

Nel Concilio si collocò prima il concetto di “popolo di Dio” e dopo quello di gerarchia. Con Francesco ritorna il “popolo di Dio missionario” e già subito dopo l’elezione, nella sua presentazione alla diocesi di Roma e al mondo, ci ha dato una ecclesiologia in gesti.

Dire popolo “di Dio”, evidenzia che è Dio che chiama, convoca, invita a far parte di un popolo: tutti siamo uno in Cristo Gesù. Vi si diventa parte attraverso il battesimo; un popolo fondato sulla legge dell’amore; un popolo inviato a portare la speranza, la salvezza in Cristo al mondo; il suo fine: il Regno di Dio. È il Santo popolo fedele di Dio (LG 12). Il “sentire cum ecclesia”, è sentirsi parte di questo popolo. Lo stesso pontefice guarda il popolo, non dal vertice, ma dall’interno, dalla periferia. Fedeli laici e pastori sono accumunati nel battesimo. L’insieme dei fedeli è “infallibile” nel credere, quando lo fa nell’autentica fede, assistito dallo Spirito Santo. Non si tratta di populismo.

In Evangelii Gaudium, al n. 119, Francesco scrive: «In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio.

È l’invito ad una conversione pastorale, il passaggio da una pastorale di conservazione ad una di missione: ne è protagonista il popolo di Dio, che si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura. La cultura comprende la totalità della vita di un popolo. Ogni popolo, nel suo divenire storico, sviluppa la propria cultura con legittima autonomia. Ciò si deve al fatto che la persona umana, «di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale» ed è sempre riferita alla società, dove vive un modo concreto di rapportarsi alla realtà. L’essere umano è sempre culturalmente situato: «natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse». La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (EG 115).

Non va dimenticata la “forza evangelizzatrice della pietà popolare”. In Evangelii Gaudium, al n. 122, leggiamo: «Allo stesso modo, possiamo pensare che i diversi popoli nei quali è stato inculturato il Vangelo sono soggetti collettivi attivi, operatori dell’evangelizzazione. Questo si verifica perché ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione trasmette alla seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa deve rielaborare di fronte alle proprie sfide. L’essere umano “è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso”. Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione. Ciascuna porzione del Popolo di Dio, traducendo nella propria vita il dono di Dio secondo il proprio genio, offre testimonianza alla fede ricevuta e la arricchisce con nuove espressioni che sono eloquenti. Si può dire che “il popolo evangelizza continuamente sé stesso”. Qui riveste importanza la pietà popolare, autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista». È il rimando alla spiritualità popolare, alla mistica popolare (di cui si parla in EG 124, 125): un luogo teologico, da guardare con lo sguardo del buon Pastore.

 

Valorizzazione dei ministeri

Il fatto di guardare alla valorizzazione dei ministeri – in termini “istituiti” – ci ricorda il dovere di partecipare alla vita e alla missione della Chiesa, quindi anche alle scelte. È proprio attraverso la liturgia che si è avuto il primo contatto, nel dopo Concilio, con l’essenza della riforma da esso scaturita. Una riflessione sulla ministerialità non è avulsa dalla riflessione sulla sinodalità, piuttosto la orienta. Entrando nei riti di istituzione dei ministeri del lettore, dell’accolito e del catechista, nei segni, troviamo il passaggio alla vita, alla missione della Chiesa. È il Signore che suscita i ministeri: una particolare chiamata del Signore a servizio della crescita dei fratelli nella fede. Quando parliamo di ministerialità, occorre evidenziare la grande tentazione di silenziare il mistero. Il fondamento della riflessione e dei processi da attuare: guardare il bene dell’assemblea.

Far essere i ministeri istituiti può essere la genesi di un “camminare insieme” nella formazione di presbiteri e laici. Ed ancora, la formazione porterà a guardare all’interazione tra le varie ministerialità parrocchiali perché non ci si “piramidizzi”. La “forma” nelle varie ministerialità, nelle interazioni, è importante per la “forma” di Chiesa che si vuol riscoprire. Il discernimento, in termini di riconoscere, interpretare e scegliere, resta fondamentale. Ed è comunitario.

 

Verso la “condecisione”

Nel tema della settimana compare il termine “condecisione”. Esso si spiega con una proposta di passare dal consultivo al deliberativo nella decisione che si prende per il bene della Chiesa.  Oggi, a motivo della sinodalità, il parroco non prende decisioni senza aver sentito i fedeli, in particolare i fedeli del CPP. Ma anche se il parroco fa suoi i consigli che gli offrono i fedeli del CPP, però prende la decisione da solo.

Allora noi vorremmo passare a uno stadio successivo, e cioè affermare che la decisione pastorale è presa non solo dal parroco, per quanto con i consigli dei fedeli da lui accettati, ma è presa dal parroco e dai fedeli, o dai fedeli con il parroco, cioè da tutto il Consiglio Pastorale Parrocchiale. Evidentemente non si tratta di un parlamentarismo, o di una democrazia intesa in senso civilistico, è una deliberatività tipicamente ecclesiale, dove alla maggioranza dei voti deve sempre accedere il voto concorde del pastore. Per questo allora si parla di “condecisione”, in una soluzione di questo problema della sinodalità.

La sinodalità ecclesiale rimanda a due testi: LG 37 e can 212/3. Ci soffermiamo sul secondo: «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona».

Sinodalità è comunione operativa in un’attività di governo pastorale. Essa si attua non in astratto, ma in precise strutture sinodali, come il Sinodo dei vescovi, il Sinodo diocesano, il Consiglio presbiterale, il Consiglio pastorale diocesano, il Consiglio pastorale parrocchiale.

In uno schema deliberativo i consultati e il soggetto deliberante decidono insieme. Qui, siamo in presenza di una comunità comunione deliberante. Ciò porta a vedere i fedeli anche come “responsabili” nella scelta. Lo schema deliberativo è coerente con l’essere della Chiesa: l’unità della Chiesa è così confermata; e in quell’atto di decisione trova compimento pieno la sinodalità.

Nello schema consultivo, non c’è Chiesa. Il passaggio al deliberativo dovrà esprimersi in una codifica canonica, coraggiosa. Pastori e fedeli, “insieme”, fanno il bene della Chiesa: intelligenza-conoscenza e volontà-decisione.

 

I cattolici in politica devono ritrovare un collegamento profondo nella diversità sulla base della Dottrina sociale”.

“Parlare di sinodalità oggi per i cattolici significa superare sia la logica dell’univoca alleanza politica in un partito – che è impensabile e ha avuto i suoi problemi e le sue difficoltà – sia di una pura e semplice diaspora”. In Italia “siamo passati dalla stagione del partito cattolico, che ha avuto un ruolo determinante nella storia del nostro Paese, ad una dispersione che ha reso i cattolici irrilevanti nella sfera delle istituzioni, delle strutture pubbliche”. “Questa crisi rende ormai impossibile per un cattolico incidere nella vita del nostro Paese perché in pratica non solo i cattolici sono divisi ma, soprattutto, non hanno più un terreno comune su cui creare un collegamento tra di loro”.

Per questo, “sinodalità deve significare ritrovare un collegamento profondo nella diversità sulla base di un terremo comune che è costituito da un progetto politico formato in ultima istanza dalla Dottrina sociale della Chiesa che i cattolici devono poi tradurre, secondo quello che dice il Concilio Vaticano II nella ‘Gaudium et Spes’ al numero 43, in formule differenti”. “È chiaro che non si chiede ai cattolici di avere lo stesso programma politico. La Dottrina sociale della Chiesa chiede ai cattolici di avere una comune ispirazione evangelica ed è di questa che purtroppo i cattolici mancano. Al di là della diaspora, oggi il vero problema dei cattolici è che non hanno più un orizzonte comune in cui ritrovarsi veramente coerenti con la loro fede”.

Quale sogno? Che i cattolici siano gli ultimi “rivoluzionari” nella società neocapitalistica; parrocchie, scuole di pensiero e di fraternità. Salvo felici eccezioni, dietro i consigli pastorali non c’è una comunità. Perché manca una formazione organica della comunità, in termini di cittadinanza.

Citando Gaudium et Spes, 43:«Gioiscano piuttosto i cristiani, seguendo l’esempio di Cristo che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro attività terrene unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio. Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione.

Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale.

Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero.

Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente.

Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa. Invece cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso un dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo del bene comune».

La nostra sinodalità deve rinascere in questi termini, in modo culturale.

 

Un vangelo declinato nella forma multiculturale di popoli e di tradizioni differenti

Secondo Amaladoss (teologo indiano), vi sono almeno tre tipi di vangelo. Vi è il vangelo dell’epoca di Gesù e dei 12 così come è presentato nel libro degli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo, nei testi del vangelo. Vi è il vangelo del 1500, dopo le scoperte geografiche dell’America e del mondo asiatico; una serie di scoperte che hanno generato una attenzione per un vangelo che oggi è un vangelo passato, coloniale; è una storia di predominio dei popoli europei, Inghilterra, Francia, Spagna, e anche in parte dell’Italia: ed è in questo contesto che diventa difficile capire la funzione liberante del Vangelo. E vi è un vangelo come quello attuale, legato ad una serie di culture: quella europea, ma anche la cultura asiatica, anche quella dell’Africa, del mondo indonesiano… .  “Multiculturalità” è forse la parola più tipica per parlare della missione oggi. Ed è in questo momento in cui la missione ha molte facce, ha molte maniere di presentarsi, è in questo momento che noi poniamo il problema di una teologia della missione. Non abbiamo una teologia unica per tutto il mondo, ma abbiamo un impegno in cui la cultura e il mondo cristiano si misurano con modi di pensare, modi di ragionare e modi di lodare Dio, modi di stare davanti ai problemi della vita, differenti da quelli che di solito hanno fatto l’impegno del mondo occidentale. Ed è in questo contesto che noi parliamo di una missione da riscoprire, una missione post-moderna, post coloniale, una missione attenta alla verità profonda delle persone, delle loro culture e del loro mondo. Una missione che sia ricca di speranza per un mondo che ha molte facce diverse l’una dall’altra ed è all’interno di questa realtà, così caratterizzata, che noi poniamo l’interesse per una presentazione della missione oggi; una presentazione che si deve radicare nel Vangelo declinato nella forma multiculturale di popoli e di tradizioni differenti. Se avremo la forza e il coraggio di questa maniera di affrontare il discorso della fede, allora avremo messo in pratica le parole che il Signore ha donato ai suoi discepoli perché siano presentatori della sua vita, del suo amore, della sua carità.

 

L’icona biblica della Settimana

Il tema guida delle nostre giornate è stato ben sintetizzato dalla Parola tratta dal libro di Geremia: «Cosa vedi Geremia?». «Vedo un ramo di mandorlo». Un tema espresso attraverso il ri-partire dalla comunità locale, luogo dove, insieme, si gioca la conversione pastorale, il protagonismo e la responsabilità del cambiamento, per dare nuovo significato alla vita personale, comunitaria e alla presenza educativa sul territorio, annunciando la bellezza del Vangelo vero e possibile. 

In ebraico il mandorlo è chiamato “colui che veglia”, il primo risvegliato dall’inverno, colui che ha gli occhi attenti, che fiorisce anche quando ancora punge il gelo. Quello che vede Geremia non è un fiore del ramo nella bella stagione, ma nel momento più duro dell’anno, quello delle gelate improvvise. In questa stagione difficile dobbiamo avere occhi attenti ai segni che sono già dentro l’inverno, saper cogliere ciò che nasce dal passaggio verso la primavera. Papa Giovanni aprì il Concilio dicendo di non dare ascolto ai “profeti di sventura”, ma di prestare orecchio ai “segni dei tempi”.