Bruno Bignami – direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI

È l’epoca delle montagne russe. Lo stato di salute del lavoro in Italia conosce picchi positivi che convivono con limiti endemici. Tra sogni e contraddizioni. Il dato che più balza all’occhio è la generale crescita dell’occupazione: quasi 516mila posti fissi in più rispetto ad aprile 2023. Ad aprile 2024 l’Istat parla di un nuovo record: il tasso di occupazione raggiunge il 62,3%. Un risultato tanto più positivo perché riguarda soprattutto i contratti a tempo indeterminato e gli indipendenti, mentre calano i dipendenti a termine. Tuttavia, partendo l’Italia da un punto basso, siamo ancora un 12% al di sotto della media europea. L’aumento riguarda tutte le fasce di età, a eccezione di quella che va dai 25 ai 34 anni, che registra invece un calo. Sui 516mila nuovi lavoratori 289mila sono tra i 50 e i 64 anni e 70mila sono over 65. Il mercato del lavoro ha le rughe. Se si osserva la condizione femminile, non si può tacere la disparità di genere. Fa ben sperare il fatto che l’occupazione femminile sia in crescita, per cui le donne occupate ad aprile 2024 sono salite di 247mila unità rispetto al 2023 (i maschi sono 270mila in più) e raggiungendo la quota di 10 milioni 194mila lavoratrici.

Esiste dunque un problema giovanile che preoccupa. La disoccupazione giovanile non scende mai sotto il 20% ed è un triste primato nell’eurozona, nonostante sembri confortare l’inversione di tendenza rispetto alla categoria dei neet, ossia i giovani che non sono né in formazione né al lavoro.

Fa pensare il rapporto Inapp sui cambiamenti nel mercato del lavoro negli ultimi dieci anni. Nel 2022 il 43,5% dei più giovani entra nell’occupazione con accordi informali, lavoro intermittente o addirittura senza conoscenza del contratto. Nel 2011 era il 18,7%. Al 43,5% si deve aggiungere un 22,3% (23,8 nel 2011) di occupazioni a tempo determinato. Gli ingressi a tempo indeterminato si attestano al 30,5% (nel 2011 erano 26,2%).

A rendere ancora più problematica la condizione giovanile è il forte disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro. Si chiama mismatch. La fondazione Altagamma-Unioncamere prevede che tra il 2024 e il 2028 ci saranno 276mila posti di lavoro liberi nei settori motori, alimentare, ospitalità, moda e design. Si presume che un’impresa su due possa avere difficoltà a reperire le figure professionali di cui ha bisogno. In alcune aree economiche del paese si fatica a trovare il personale sufficiente per tenere in piedi attività commerciali o produttive. Il sistema formativo non riesce a prendere in carico i giovani e accompagnarli verso una qualificazione capace di dare risposte convincenti al divario tra domanda e offerta. Il meccanismo è perennemente inceppato.

L’inverno demografico non sta creando il ricambio necessario e la fuga dei giovani dalle aree interne dell’Italia verso le aree metropolitane o verso altri paesi toglie energie fresche al corpo sociale. Non è difficile prevedere che la crisi demografica sarà uno tsunami sul mercato del lavoro: come colmare il vuoto? Il ricorso all’immigrazione è una risposta parziale. La proiezione in vista del 2050 mostra che il calo degli occupati arriverebbe al 20,5%, che significa in sostanza 4,6 milioni di lavoratori in meno. Secondo l’associazione Adapt (fondata nel 2000 da Marco Biagi), con un tasso di occupazione costante già nel 2030 si potrebbe prevedere un calo degli occupati del 3,2%, con una media cinque volte superiore a quella del vecchio continente (0,6%).

L’altro paradosso che si rileva è il fatto che l’occupazione cresce più del Pil. Quali le cause? C’è chi ipotizza un effetto bonus edile che ha trascinato la ricerca di lavoratori. Molte imprese sono corse all’ingaggio di personale e si sono accaparrate la manodopera disponibile per timore di rimanere scoperte (skill shorage). Una seconda causa si radica nel fatto che si tratta di occupazione di qualità inferiore, con stipendi più bassi. Lo mostra la disuguaglianza sociale ancora molto presente in Italia e che spinge verso fenomeni particolari come le grandi dimissioni e il lavoro povero.

  1. Lavoro, dove sei?

 Il lavoro è in perenne transizione. Conosce nodi e snodi. Ciò è dovuto sia alle trasformazioni tecnologiche sia al fatto che l’uomo abita la storia attraverso scelte di libertà. Chi osasse pensare al lavoro sempre uguale non solo è fuori dalla storia, ma non riesce neppure a capirne il senso. Un bracciante contadino di metà Novecento viveva in stretto contatto con gli animali che allevava e dipendeva dalle stagioni: cos’ha a che fare con l’agricoltore di oggi che usa l’intelligenza artificiale per irrigare i campi o per razionare il cibo nell’allevamento? Un minatore dell’Elba di un secolo fa non avrebbe mai immaginato i macchinari robotizzati e comandati a distanza, con meno rischi per la sicurezza e la sostenibilità. Il pescatore che si regolava con la bussola è un lontano parente di quello che si muove su un peschereccio condotto elettronicamente e in grado di segnalare in ogni istante la profondità dei fondali e le condizioni del mare. Viviamo in un altro mondo.

2.1. Le grandi dimissioni

 Un fenomeno in crescita negli ultimi anni è quello delle dimissioni volontarie. Già i quiet quitter esprimono un malessere diffuso: una fetta di dipendenti (circa 2,3 milioni, il 12%,) non lascia l’azienda ma decide di fare il minimo indispensabile per non essere licenziato. Si limita alle mansioni assegnate, al compitino ricevuto senza entusiasmo e senza dedicarvisi per salvare posto e stipendio. Queste persone, che conoscono un livello di partecipazione e di coinvolgimento quasi nullo, si accontentano di occupare un posto.

Da questa categoria si staccano i coraggiosi che, insoddisfatti del loro lavoro, si dimettono. Nato negli Stati Uniti nel 2021 e battezzato come il big quit, ha conosciuto diffusione anche in Europa e in Italia. Le grandi dimissioni sono transazioni lavorative, da posto a posto, da occupazione a occupazione nella ricerca di un’esistenza liberata dal lavoro oppressivo o stressante, mal retribuito o insicuro. L’abbandono di un lavoro avviene anche senza avere nell’immediato una soluzione alternativa, nella speranza di un lavoro qualitativamente migliore, più vicino alla realizzazione personale e più capace di offrire spazi per altre dimensioni della vita (famiglia, affetti, passioni, sport…). La conciliazione vita-lavoro e la volontà di non essere sfruttati sono le ragioni più frequenti che spingono a lasciare. Incidono anche le precarie condizioni contrattuali. Oltreoceano c’è chi ha definito questo movimento Yolo (You Only Live Once) Economy, ovvero l’economia di chi vive una sola volta. Il fatto che tutto questo coinvolga in primis le giovani generazioni fa pensare a un cambiamento culturale profondo. Scrive Francesca Coin: «I quitters con la forza del proprio gesto di sottrazione sono riusciti ad accendere i riflettori sul mondo del lavoro e a porre all’ordine del giorno una discussione che è stata per lungo tempo rimandata. È tempo di ascoltarli».[1] È come se i giovani dicessero: il lavoro non è tutto! Occorre inserirlo nella molteplicità di dimensioni della vita. Va risignificato nel suo valore all’interno di una biografia. E soprattutto si richiedono standard adeguati di retribuzione, di sicurezza e di tutela, oltre alla rispondenza agli studi compiuti e alla sostenibilità psicofisica. Salari ingiusti, forme di sfruttamento, stress continuo, orari assurdi, restituzioni di parte dello stipendio mensile… sono solo alcune delle condizioni che i giovani rifiutano. Il rischio sottostante è che il lavoro diventi una realtà fra tante, senza un legame profondo con la propria vocazione. C’è una conseguente ricaduta sulle imprese, che si trovano a fare i conti con l’inverno demografico e con la carenza di risorse umane (mismatch). È evidente che fenomeni come le grandi dimissioni potrebbero portare a un nuovo patto di impegno nel lavoro, che sappia valorizzare le capacità delle persone, la logica inclusiva, la sicurezza, il benessere psicofisico. In una espressione, un patto di cura. Ripetere, come molti fanno, che i giovani non hanno voglia di lavorare è un pregiudizio tutto da dimostrare. Un po’ come pensare di giocare a calcio buttando di continuo la palla in tribuna.

2.2. Tra tecnofobia e tecnocrazia

 La pandemia di Covid-19 ha accelerato alcune trasformazioni che avevano già fatto capolino nel panorama del lavoro contemporaneo. Il ricorso allo smart working ha permesso a molte aziende di non chiudere, ha potuto far rimodulare gli spazi e i tempi di lavoro. Nel dilemma tra la libertà dal lavoro e la libertà nel lavoro, lo smart working è la strada che preferisce la seconda direzione.[2] Il lavoro cambia in tempi rapidi. La pervasività della tecnologia trova nella velocizzazione il suo carattere distintivo. Se la radio in 38 anni ha raggiunto 50 milioni di ascoltatori, la Tv per raggiungere gli stessi obiettivi ne ha impiegati tredici, internet solo quattro. Facebook ha conquistato 100 milioni di persone in nove mesi. Prendono sempre più piede i gig-worker: sono i lavoratori collegati a una piattaforma digitale. Nel giro di due anni in Europa potrebbero crescere esponenzialmente da 28milioni a 43milioni.

La tecnologia rivela un segno dei tempi. Alla velocità si affianca la pervasività. I tecnofobi rappresentano un problema perché interpretano le conquiste scientifiche e le applicazioni tecniche come un male a prescindere. Pure i tecnoentusiasti non sono da meno: non sanno coltivare uno sguardo critico verso le forme di strumentalizzazione dell’umano o di sottrazione all’ambito della coscienza in nome della dittatura degli algoritmi. L’impero della tecnocrazia è devastante, perché aggredisce tutto. L’esortazione apostolica Laudate Deum sostiene che «l’intelligenza artificiale e i recenti sviluppi tecnologici si basano sull’idea di un essere umano senza limiti, le cui capacità e possibilità si potrebbero estendere all’infinito grazie alla tecnologia. Così, il paradigma tecnocratico si nutre mostruosamente di sé stesso» (LD 21). Le scoperte tecniche offrono un potere enorme a chi detiene il potere economico, tanto da porre interrogativi circa la saggezza di affidare un immenso potere nelle mani di poche persone.

Eppure, non si può fare a meno della tecnologia per umanizzare il lavoro nel nostro tempo. Alcune mansioni faticose, pesanti, ripetitive e usuranti possono essere assegnate alle macchine. Inoltre, occorre difendere il pensiero critico umano, la capacità di prendere decisioni, la creatività, la possibilità di lavorare insieme, l’attitudine comunitaria. Le tecnologie di fatto impongono un ripensamento dei modelli lavorativi. L’umano sarà sempre più «ibridato», in un rapporto con la macchina che esige nuovi tempi e nuovi spazi lavorativi. L’automazione è una possibilità per alleggerire molti lavori e ciò comporta che molte attività nel giro di qualche anno potrebbero essere affidate ai robot. All’uomo compete il processo decisionale che esula dall’algoritmo e dal protagonismo dell’intelligenza artificiale (IA). La modifica di mansioni e la riorganizzazione del tempo comportano comunque un nuovo modello di formazione. Si tratta di mantenersi all’interno del percorso formativo in ogni stagione della propria vita lavorativa, senza sottrarsi alla necessità di aggiornamento. Per questo motivo Marco Bentivogli ritiene che «il mantenimento del valore legale del titolo di studio sia anacronistico: avrebbe più senso una certificazione delle competenze aggiornata lungo tutta la vita lavorativa».[3] In questa stagione di transizione digitale sono fondamentali la formazione continua e un sistema in grado di certificarla. Le scuole professionali e gli Its hanno il pregio di indirizzare verso un mestiere. In Italia deve essere migliorata ancora la modalità di promuovere l’orientamento al lavoro, connettendola con imprese e territori. «Le aziende che sapranno utilizzare le innovazioni per aumentare il proprio potenziale umano, reinventando i processi e diffondendo le competenze, saranno all’avanguardia nei loro settori. Al contrario, quelle che si limiteranno ad automatizzare e concentreranno la conoscenza tra pochi esperti, rischieranno di avere una forza lavoro inadeguata ad affrontare i cambiamenti nel lungo termine».[4]

2.3. Insicurezza cronica

I dati Inail ci dicono che nel quinquennio 2018-2022, il bilancio del fenomeno infortunistico, riferito ai dipendenti pubblici, mostra una tendenza in crescita. Il numero totale di denunce pervenute nel 2022 dimostra infatti un incremento del 14,1% rispetto al 2018 e del 35,1% rispetto al 2021, complice il rientro al lavoro in presenza dei dipendenti pubblici a partire dal 15 ottobre 2021. La decrescita del numero di morti bianche per un complessivo -42,1% tra il 2021 e 2022 è dovuta principalmente alla diminuzione dei casi mortali da Covid-19. Le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail tra gennaio e dicembre 2023 sono state 585.356 (-16,1% rispetto al 2022), 1.041 delle quali con esito mortale (-4,5%). Sono in aumento le patologie di origine professionale denunciate (72.754, +19,7%).

In sostanza, c’è un trend di tre vittime al giorno sul lavoro che non accenna a diminuire. L’Osservatorio nazionale di Bologna dei morti sul lavoro (che monitora anche le vittime non assicurate INAIL e i lavoratori in nero) ricorda che dall’inizio dell’anno a fine maggio 2024 sono già morte 431 persone nei luoghi di lavoro (nel 2023 erano 349: aumento del 19%). Le vittime salgono a 586 se si aggiungono i morti sulle strade. Nel 2023 i lavoratori morti per infortuni sono stati 1485, 986 di questi sui luoghi di lavoro; gli altri sulle strade e in itinere, soprattutto in agricoltura e in edilizia.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro rende noto che gli infortuni e le malattie professionali sono anche un onere economico. Incidono sul PIL nazionale con una percentuale che va dal 3% a oltre il 6%. Alla faccia di chi continua a considerare la sicurezza un costo! Solitamente all’insicurezza si affianca una visione strumentale della persona. Si considera solo l’utile pensando ai lavoratori come all’ingranaggio di una macchina. Vi è un inevitabile scadimento del lavoro e il venir meno dell’esperienza comunitaria.

Tre ragioni favoriscono principalmente gli incidenti sul lavoro: la prima riguarda la cultura dell’impresa. La sicurezza è un investimento sul futuro, non un costo. Le persone vengono prima del profitto. La seconda questione riguarda la leggerezza con cui gli stessi lavoratori a volte non rispettano le normative e gli adempimenti richiesti. L’abitudine o la sicurezza di sé possono giocare brutti scherzi. La terza questione, come purtroppo anche diversi fatti di cronaca hanno evidenziato, è legata al sistema degli appalti e dei subappalti: per risparmiare denaro, i lavori vengono affidati a ditte esterne che non rispettano le normative basilari. Tra l’altro, questo sistema crea una zona grigia di rimpallo di responsabilità che finisce per fare del lavoratore, ultimo anello della catena, la vittima sacrificale del gioco perverso delle irresponsabilità condivise a più livelli. Non si deve trascurare che purtroppo alcune zone del paese conoscono ancora forme di caporalato, di sfruttamento dei migranti o di lavoro sottopagato.

È necessario quindi mettere mano al dato culturale e a quello legislativo: sono certamente indispensabili le leggi ma, contemporaneamente, è fondamentale formare le coscienze delle persone perché siano consapevoli di quanto la sicurezza è importante, non solo per sé stessi, ma anche per gli altri. Come ha affermato papa Francesco all’Anmil l’11 settembre 2023: «La sicurezza sul lavoro è parte integrante della cura della persona. Anzi, per un datore di lavoro, è il primo dovere e la prima forma di bene. Sono invece diffuse forme che vanno in senso opposto e che in una parola si possono chiamare di carewashing. Accade quando imprenditori o legislatori, invece di investire sulla sicurezza, preferiscono lavarsi la coscienza con qualche opera benefica».[5]

  1. Lavoro, dove vai?

 Un fenomeno in crescita è quello dei lavoratori poveri, già segnalato da Caritas nei suoi report. Il salario netto mensile medio di un lavoratore italiano nel 2023 è pari a 1.600 euro. Il rapporto Istat dello scorso anno indicava in 27mila euro la retribuzione lorda annua, che a fronte di un’inflazione cumulata nel biennio pari al 15%, è cresciuta del 6,5%, con una perdita di oltre 8 punti. In Europa i salari tedeschi e francesi crescono di 15mila e 12mila euro, quelli italiani sono diminuiti a parità di potere d’acquisto di circa mille euro. Ciò significa che da noi il salario reale vale meno di 30 anni fa.

Una ricerca realizzata dall’Area lavoro Acli conclude che il 14,9% di chi lavora ha un reddito inferiore o pari a 9mila euro. Se si guarda ai redditi che non superano i 15mila euro, il numero dei vulnerabili raggiunge il 29,4%. A scontare una peggiore condizione sono i lavoratori del Mezzogiorno e le donne. Le disuguaglianze di reddito, infine, sono più marcate tra i giovani: sotto i 9mila euro stanno il 28% dei giovani lavoratori fino a 29 anni. Il 24,8 per cento delle lavoratrici, pur avendo una occupazione continuativa, non riesce a raggiungere un reddito che superi i 15 mila euro annui. Gli uomini in questa fascia sono il 6,8 %. Le donne fra i 36 e i 45 anni che restano sotto la soglia dei 15mila euro sono il 25,9 % contro il 6,4 dei maschi.

Il contesto di disuguaglianze è sempre più radicale e spiccato. In Italia il 10% delle famiglie più ricche ha visto crescere le proprie ricchezze anche in questi ultimi anni. Gli extra profitti delle imprese energetiche, farmaceutiche e bancarie sono stati stratosferici. Nelle sole banche, ci sono stati oltre 24 miliardi di profitti aggiuntivi, grazie ai tassi d’interesse.

C’è una forte crescita del part-time involontario, che vede coinvolte soprattutto le donne con minimi contrattuali al di sotto dei 9 euro l’ora. Torna il dibattito sul salario minimo, almeno a garanzia dei lavori più fragili. Non si deve dimenticare che circa tre milioni di lavoratori operano nel lavoro sommerso, in nero, non tutelati e senza il rispetto dei contratti di lavoro. L’Italia conserva il primato negativo europeo di oltre 90 miliardi di evasione fiscale. Il tema della legalità è quanto mai attuale.

L’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia ha impattato fortemente sulla vita ordinaria. Le guerre hanno accresciuto le conseguenze della crisi socioeconomica a livello europeo e globale: categorie di lavoratori alla fame, disuguaglianze sociali sempre più vistose, ingiustizie nell’accesso alle cure sanitarie, aumento spropositato della produzione e del mercato di armi, corsa all’accaparramento delle materie prime, controllo delle risorse energetiche e alimentari, crescita di incidenti sul lavoro…

  1. Lavoro, cosa sei?

 La pastorale sociale può dire la sua attraverso una proposta di conversione culturale e spirituale. Se cambia il senso del lavoro, la chiesa non è mai in fuorigioco. Papa Francesco nell’esortazione apostolica Christus vivit ricorda che la vocazione di un giovane si realizza nella famiglia e nel lavoro (ChV 258). Sono gli ambiti in cui la persona scopre di «essere per gli altri» e sperimenta la fioritura della propria vita. Ciò evidenzia la necessità di una nuova cultura del lavoro che coinvolga la dimensione umana. Lo attestano molte questioni presentate in precedenza: le grandi dimissioni, l’insicurezza cronica, le disuguaglianze… Come scrive il filosofo tedesco Hartmut Rosa, «tutte le esperienze della vita insegnano che il percorso professionale di una persona è del tutto indisponibile o, meglio, semi-disponibile. È un’eccezione (che però ci viene presentata come “la norma”) quando qualcuno diventa ciò che desiderava essere al tempo della maturità. I percorsi professionali si formano in un gioco continuo di ascoltare e rispondere alle circostanze esterne – le possibilità e le necessità – e di disposizioni interiori, per quanto entrambe le cose si modifichino in continuazione».[6]

Si aprono autostrade di discernimento per la pastorale.

Mentre riconosciamo di avvicinare con urgenza la comunità cristiana e il lavoro, un percorso urgente è sicuramente quello di recuperare le molteplici dimensioni, che ne fanno una vocazione a tutto tondo. Lo spiega con una sintesi mirabile l’enciclica Fratelli tutti: «In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo» (FT 162). Il lavoro non intercetta solo la domanda di sopravvivenza (che pure il lavoro povero mette in discussione), ma anche la sete di comunità, il desiderio personale di esprimere sé stessi e il sogno di cambiare il mondo. Un conto, infatti, è montare un gazebo, altro è realizzare un capolavoro architettonico. Per rispondere all’esigenza di un ampio sguardo sul lavoro la chiesa italiana aveva fatto nascere nel 1995 il progetto Policoro. L’idea di fondo è che il lavoro non nasce dal genio solitario di qualcuno, ma da relazioni feconde. Per questo, la formazione di animatori di comunità nei territori ha attivato processi virtuosi. Sono nate cooperative, imprese, partite iva, attività lavorative che hanno fatto crescere la consapevolezza delle persone. Il vangelo è diventato lievito nella pasta dell’economia. Avere una prospettiva di ampio respiro e di bellezza cambia le motivazioni e spinge al meglio. Il domani cammina con le gambe del presente.

 

[1] F. Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, Torino 2023, p. 13.

[2] Sul tema sono importanti i contributi di D. De Masi, Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente, Marsilio, Venezia 2020; M. Bentivogli, Indipendenti. Guida allo smart working, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020.

[3] M. Bentivogli, Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica, San Paolo, Cinisello Balsamo 2021, p 118.

[4] M. Magnani, Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia), Utet, Milano 2020, p. 246.

[5] https://bit.ly/3zmP0Hn

[6] H. Rosa, Indisponibilità. All’origine della risonanza, Queriniana, Brescia 2024, p. 117.