Luigi Ciotti, Fondatore del “Gruppo Abele”
Buonasera a tutti, in questo luogo che vi accoglie, e molti di voi vengono da lontano, per noi torinesi racconta una storia brutta, mentre per me qui è stato un momento di riflessione e di preghiera, d’incontro con un grande vescovo, padre Michele Pellegrino. In questo luogo abbiamo vissuto momenti molto importanti, e per me è veramente molto caro. La prima volta che ho visto Papa Francesco – una persona molto furba, perché sapeva come prendermi e in modo simpatico – mi ha puntato e mi ha chiesto chi mi avesse ordinato sacerdote, e la mia risposta fu Michele Pellegrino, ed a quel punto mi fece un sorriso stupendo – e devo dire che quando ha parlato di altri vescovi non era così sorridente. Quando ho nominato Michele Pellegrino, il Papa ha raccontato una cosa che mi ha profondamente commosso – forse ormai qualcuno già sa -, mi ha raccontato una cosa importante che riguarda i suoi nonni, i quali si sono trovati in grave difficoltà economica, ed a dare loro una mano è stato un giovane sacerdote di nome Michele Pellegrino. Un intreccio nella storia, nella vita.
La seconda cosa che mi ha raccontato, che ormai tutti conoscete, riguarda sempre i suoi nonni, i quali avevano già prenotato la nave per andare in Argentina, ma che poi avevano dovuto disdire, e per farne un’altra hanno dovuto aspettare mesi interi.
Allora Papa Francesco racconterebbe, come ha raccontato a me – con molta semplicità, ma anche con molta forza -, che sulla nave Mafalda sulla quale dovevano salire i suoi nonni, con il loro bambino – che diventerà poi il papà di Papa Francesco – è andata a picco con centinaia di italiani morti affogati.
Parto da questi due piccoli episodi per condividere che cosa ha significato questo luogo per Michele Pellegrino, per noi. È un luogo di formazione, di incontro e di riflessione, con tanti momenti di silenzio, e che per me rappresenta anche la gioia di incontrare Papa Francesco, il quale mi ha appunto raccontato di quanto Pellegrino sia stato per lui un punto di riferimento, e soprattutto un segno per i suoi nonni.
La seconda considerazione che mi permetto di fare la prendo da un signore che avete conosciuto, un monaco a cui ho sempre fatto molto riferimento nelle mie riflessioni in questi anni, un frate dell’ordine dei Servi di Maria, Giovanni Vannucci. Faccio riferimento soprattutto al grande dono e alla grande profondità di quello che ha lasciato nelle sue riflessioni; difatti c’è un passaggio che cerco sempre di fare mio e che voglio condividere con voi: il passaggio in questione è la frase più volte ripetuta da Vannucci: “Io non vi trasmetto coscienze certe, vi do solo delle tracce per sognare”. Quindi anche io – piccolo come mi sento davanti ad una tale presenza, e poi essere qui in questo luogo, dove mi sento ancora più piccolo, con voi, con la vostra esperienza, il vostro impegno – posso solo darvi delle tracce, per condividere e per riflettere e per sognare.
Non ho mai dimenticato Mazzolari, visto che adesso tutti ne parlano, infatti ho continuato sempre ad andare dagli amici di Mazzolari, della Fondazione a Bozzolo, e mi è sempre stato caro un suo passaggio, quando diceva che all’avvicinarsi al Vangelo si deve sentire aria di libertà; credo che sia così anche per me, con queste tracce di sognare e con l’avere fortemente il vangelo come punto di riferimento, perché tutte le volte che cerco di trovare quella profondità sento anche aria di libertà.
Se potessi portare un piccolo contributo, racconterei la mia storia – che però è una storia di tanti altri – che comincia come nuovo sacerdote ordinato da ragazzo, emigrato dal Veneto a Torino per la stessa ragione di migliaia di altre persone.
Mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa, ripetendo la storia di tanti di ieri e di tantissimi di oggi. L’impresa di mio padre, che costruiva il politecnico a Torino negli anni 50, propose a mio padre la baracca del cantiere come casa; mia madre, le mie sorelle ed io ci trasferimmo con lui, e per me quella baracca è stata la più bella casa, proprio dentro il cantiere.
Andavamo a scuola con gli abiti della S. Vincenzo, ma mia mamma li lavava e li stirava molto bene, perché, voi me lo insegnate, uno può essere povero ma dignitoso, e la mia famiglia era povera ma molto, molto dignitosa.
Dico questo perché mi ricorda la storia di tante persone, e mi ricorda pochi anni dopo per le vie di Torino i cartelli con su scritto “affittasi alloggi, ma non a meridionali”, ed è una storia che tocchiamo ancora oggi con mano anche se in contesti storici diversi, e in cui ognuno porta un po’ di quello che ha dentro, delle esperienze che anche voi mi insegnate, e che io ho imparato – con tutti i miei limiti e le mie fragilità – partendo da lì ad ascoltare la strada. Questo perché la strada è stata nella mia vita, ma soprattutto continua ad esserlo, ed io la condivido in un “noi”, poiché non rappresento più un io, certo ci sono anche io, però per me è stato importante acquisire la coscienza che non opera nei navigatori solitari, ma per cui invece è necessario costruire un noi nella vita. La strada è stata la grande protagonista della mia vita, perché sulla strada a 17 anni c’è stato l’incontro con un uomo – che allora chiamavo i barboni, oggi li chiamiamo il popolo della strada – che cambiò un pochettino la mia vita, infatti diventerò sacerdote anni ed anni dopo, ma la storia del gruppo, l’impatto con la strada e con la povertà, con la distruzione e l’emarginazione è cominciata proprio sulla strada, da adolescente, con i miei.
Frequentavo l’Azione cattolica, che è stata il mio primo grande amore in questo senso. Discutevamo anche molto dei poveri, ma bisognava anche incontrarli questi benedetti poveri.
È una vicenda che ha segnato la mia vita, proprio partire dalla strada, e la strada – ieri come oggi – ci ha insegnato il cammino, perché la strada significa ascolto, la strada ti costringe ad una mentalità aperta, per cogliere quelle fragilità e quelle sofferenze, ti fa toccare con mano la coscienza dei limiti, ci ha insegnato a guardarci dentro, a non avere paura delle nostre contraddizioni, e anche delle nostre ambiguità.
Perché – penso in quegli anni ma è così anche nella storia di oggi – il mondo della prostituzione delle ragazze in quegli anni si ripete anche oggi, nonostante noi vediamo un altro mondo, quel meccanismo di fondo resta lo stesso.
In quegli anni non c’era l’eroina, non si parlava di droga nel nostro paese, non c’era la parola, la strada impone però la lettura dei cambiamenti, richiede lealtà e fedeltà, chiede i cambiamenti e le trasformazioni; ci ha insegnato a guardarci dentro e a non aver paura neppure delle nostre contraddizioni perché viene incontro a quella storia di chi si batteva allora sulla strada, ma anche di chi si batte oggi. È il luogo dove trovi le tue contraddizioni e le tue ambiguità.
La strada mette al centro la persona e soprattutto, voi me lo insegnate, l’irripetibilità della sua storia; la strada ci ha insegnato a non selezionare, ad accogliere. In questo senso la strada ci ha permesso di incontrare tante storie, molte persone che sembravano sconfitte e rassegnate e possono invece ritrovare motivazioni e progetti se non vengono abbandonate al loro destino.
La strada continua ad essere – per me e per il gruppo di cui faccio parte da 52 anni, il gruppo Abele – il punto fermo; sulla strada continuiamo, ancora dopo 52 anni, ad esserci anche se in forme diverse; dalla strada continuiamo a raccogliere la storia di tante persone.
Devo nuovamente sottolineare l’emozione nel trovarmi qui, perché è qui che con Michele Pellegrino decidemmo l’ordinazione sacerdotale nel seminario minore per una serie di opportunità.
Non posso poi dimenticare il momento dell’ordinazione sacerdotale, perché la Chiesa si era riempita del popolo della strada, con le ragazze del buon pastore – una casa di rieducazione femminile – ed i ragazzi dell’istituto Fornelli, dove io avevo una presenza in quegli anni – tra l’altro quella fu un’esperienza pilota in Italia, difatti 12 di noi hanno vissuto in carcere, entravamo ed uscivamo, abbiamo realmente vissuto in carcere. Fu la prima esperienza che portò il Ministero di allora, dato che non c’era una sezione autonoma, ma c’era un signore di Brescia, Umberto Radaelli, grande magistrato e grande protagonista alla direzione dell’ufficio IV del Ministero dei minori. Quelle erano le prime esperienze del Tribunale per i minorenni, che adesso qualcuno vorrebbe eliminare, ed invece è diventata storia, ed è stato naturale cominciare un percorso per andare lì, ma quello fu un progetto unico, un progetto con cui si permise a 12 persone di fare comunità e di vivere in carcere, per attuare una condivisione dentro il carcere, di fare comunità con questi ragazzi.
Fu un’esperienza meravigliosa, sostenuta da Radaelli, ma a Roma qualcuno tremò, e allora a parer loro bisognava buttare tutto, era la politica che preferiva prendere la chiave e buttarla lontano, tornare indietro negli anni. Infatti il gruppo Abele nasce ufficialmente nel 1965, quando si fa questa esperienza siamo nel ’68, si fa un colpo con quel Ministero, con quel Dipartimento per un progetto che portò noi ad andar dentro, e fu un’esperienza unica che permetterà poi anni dopo un grande progetto di una città ancora dentro, e dentro non solo per le città e per il territorio.
Ma a Roma qualcuno si inquietò e tutto fu bloccato, fu bloccato per anni, e attraverso un falso venne permesso a 24 ragazzi di scappare, grazie ad uno stato costruito ad arte per cui vennero fatte trovare nelle celle delle cose che non dovevano trovarsi per poter giustificare l’accaduto; si aprì quindi un’inchiesta e fu sospeso il direttore, fu aperta un’inchiesta anche nei nostri riguardi ma poi si scoprì che era tutto un gioco per bloccare quest’avventura, quest’apertura.
Noi uscimmo all’esterno e aprimmo le prime comunità in alternativa al carcere, in quegli anni in cui non esistevano; c’era solo una nave nel porto di Genova, la nave scuola Garaventa, che accoglieva i ragazzi, ma era una situazione più ufficiale, mentre le prime comunità nascono proprio per trovare un’alternativa.
Il direttore del carcere fu poi assolto, fummo assolti tutti, ma intanto erano riusciti a bloccare impropriamente quel progetto, che però andò poi a fondare quel grande progetto di una città che accoglieva queste storie e questi percorsi.
La strada è stata la nostra protagonista e dalla strada sono nate le prime comunità per questi ragazzi, ma anche per le ragazze che incontravamo sulla strada.
Nacque quindi nelle persone l’idea della comunità, di mettere tutti noi insieme.
A 17 anni incontrai un signore su una panchina di Torino; in quel periodo andavo a scuola per prendere un diploma in telefonia e telegrafia, e quel signore aveva due cappotti addosso e la cosa curiosa era che leggeva sempre dei libri, aveva quelle matite rosse da una parte e blu dall’altra e li sottolineava; quando passavo di lì lo vedevo, tornavo a casa ed era lì, andavo a scuola ed era ancora lì. Un giorno quindi ho vinto la mia timidezza – e nonostante lo sia ancora oggi, a un certo punto senti qualcosa di misterioso che ti cambia -, mi sedetti sulla panchina e chiesi a questo signore se volesse un caffè, perché voi mi insegnate che la modalità migliore nei rapporti è la relazione, e tu cerchi la relazione. Ma non mi rispose e andai in difficoltà perché non riuscii ad avere una relazione, e allora pensai che non gli piacesse il caffè, e gli chiesi se volesse un the, e ancora non mi rispose, per cui andai ancora più in difficoltà, mancando la comunicazione. Così nella mia ingenuità pensai che fosse sordo, ma quando le macchine all’incrocio del viale frenavano di botto questo signore alzava quel suo sguardo, e lì ho visto per la prima volta gli occhi della disperazione.
Chi era questo signore che cambiò un pezzo della mia adolescenza e della mia vita? Su quella panchina, quello che oggi è il popolo della strada, questo signore era un medico di un paesone del nord Italia, e come può capitare alla vita di tutti, può arrivare improvvisamente una tempesta, la tempesta che ti sconvolge la vita, come ad esempio la malattia di una persona cara, o una tragedia, un incidente. Questo medico era amato dalla gente, bravo, generoso e competente, ma travolto da una tempesta che l’ha portato con degli squilibri sulla panchina di Torino, e da quella panchina lui vedeva sempre un bar di fronte; non mi rispose quel giorno lì, ma testardo lui e testardo io ci vollero 12 giorni in cui io domandavo sempre le stesse cose, a cui si accompagnava il disagio di mia madre. Tornavo a casa dicendo “guarda mamma mi fermo con un signore che ha due cappotti addosso, che non mi risponde” e mia madre pensava che forse potessi avere io qualche problema. Dopo 12 giorni arrivarono le prime parole di quest’uomo, e nacque un rapporto tra un ragazzo e un uomo disperato sulla panchina; un giorno mi disse “io ti ringrazio della tua amicizia”, sempre con una voce molto sofferta, e poi mi disse di sentirsi stanco, vecchio e malato, mi disse di guardare quel bar di fronte e i ragazzi che entravano, e che quando uscivano dopo un po’ di tempo, e mi rivelò che prendevano dei farmaci, lì prendevano dei superalcolici, facevano un miscuglio, lui mi diceva fanno la bomba, si drogano. Non ho mai dimenticato che con un filo di voce mi chiese di fare qualcosa per loro.
Una mattina andando a scuola notai che la panchina era vuota, il mio amico non c’era più, se n’era andato. E alla soglia dei 18 anni ho sentito che quella strada mi chiamava, mi resi conto da ragazzo che dovevo fare qualcosa, che quell’incontro non poteva essere uno dei soliti incontri, e quindi cominciò quella storia che ci porterà anni dopo alla nascita del gruppo Abele, che nasce proprio sulla strada.
In questo senso la strada è stata per me importante, fondamentale, e mi ha cambiato la vita, ma non solo per me, perché è stato importante costruire questo noi, poiché il cambiamento ha bisogno di ciascuno di noi e dobbiamo essere questo cambiamento, non è opera di navigatori solitari. E se trovate qualcuno che ha capito tutto, che sa tutto, vi prego confratelli salutatelo e cambiate strada, perché il sentimento vero è di sentirsi sempre più piccolo rispetto a tutto questo.
Michele Pellegrino anni dopo mi ordinò sacerdote, con il popolo della strada presente – avevo nel frattempo aperto le prime comunità – ed alla fine di quella celebrazione, in una chiesa molto colorata, guardò quei ragazzi e disse loro “è nato con voi ragazzi, è cresciuto con voi, io lo lascio, ed anche a lui affido una parrocchia, e la sua parrocchia sarà la strada“.
Sono felice che Michele Pellegrino anche a me abbia consegnato una parrocchia, e vi prego di credere che ho sempre pensato che la verità più complessa, più difficile, ma allo stesso tempo meravigliosa, è la parrocchia. E per me è molto importante manifestare stima e affetto per quanti vivono nelle parrocchie, e mi ha fatto piacere che Michele Pellegrino mi abbia detto la tua parrocchia è la strada: mi dava questo senso di grande affetto e di grande riconoscenza alla parrocchia, e considero che la realtà della parrocchia è la più difficile, ancor più difficile di quello che faccio io, perché lì percorri tutte le dimensioni della vita, in quel territorio accompagni la storia di tante persone, devi misurarti con le varie dimensioni culturali, sociali, politiche, con la vita stessa.
Michele Pellegrino mi ha affidato una parrocchia, non mi ha mandato ad insegnare a chi c’è sulla strada, ma mi ha mandato sicuramente a riconoscere il volto di Dio in chi si batte sulle strade. Io ho cercato di fare questo, di fare parte di una Chiesa che ascolta la strada, ed ho cercato di condividerlo con tante persone, e dalla strada – ieri come oggi – si eleva un grido di libertà, perché la libertà, oltre che il più prezioso dei beni, è la più esigente delle responsabilità. Per questo credo che il primo compito di ogni persona libera sia di impegnarsi per chi ancora libero non è. Chi è povero non è libero, neppure chi vive in situazioni dove sono insoddisfatti i bisogni primari, neppure è libero chi deve fare i conti con la corruzione, con lo sfruttamento delle mafie, i cui membri prospettano solo il lavoro senza diritti, il caporalato, il lavoro in nero. C’è una rete in cui ci sono tante storie di chi viene soffocato da tutto questo, ed ancora le donne della ‘ndrangheta, quelle della prostituzione. Io ricordo quegli anni in cui ho conosciuto quelle ragazze sulle strade di Torino. Ed ancora non è libero chi vive schiacciato dai soprusi e dalle guerre, chi è costretto a fuggire dalle proprie terre e dai propri affetti, chi non si vede riconosciuta la propria dignità e la propria libertà, e la strada accoglie questo grido di libertà.
Aprimmo il primo centro-droga a Torino, in Via Giuseppe Verdi 53, autodenunciandoci poiché c’era una legge che diceva che se ci si reca da drogato da un dottore bisogna denunciare, e alla denuncia consegue l’ospedale psichiatrico e il carcere, era quella la storia. Nella città incontrammo sulla strada le prime situazioni di persone con l’ago nella vena, e così incontrammo questo bisogno ed io ne parlai col mio vescovo; Michele Pellegrino concordò sulla meraviglia di questo lavoro. Scrisse un articolo sulla gazzetta del Popolo in cui rivelava che non ne capiva nulla di questi problemi, però prese i risvolti educativi e la prevenzione, e dimostrò così la sua umiltà ma anche la voglia di non lasciare soli.
Così aprimmo il primo centro-droga, ed in un anno e mezzo vennero 4.000 ragazzi, da tutte le parti, perché la notizia della porta aperta e del fatto che non si denunciava il drogato, ma lo si accoglieva ed accompagnava richiamò tutti. Fu la prima esperienza nel nostro Paese, e da lì nacque la battaglia politica che ci portò anni dopo ad avere una legge per l’apertura dei SERT e il sostegno e l’accoglienza, e Michele Pellegrino venne alla tenda che avevamo realizzato in piazza Solferino per denunciare questo problema e prese un pezzo di carta, su cui scrisse al Capo dello Stato – l’onorevole Leone – per focalizzare l’urgenza sulle migliaia di ragazzi per cui non c’erano dei punti di riferimento utili.
Dalla strada veniva ancora il grido di libertà, e mai avrei pensato che anni dopo mi sarei incontrato con le droghe chimiche e quelle sintetiche, l’esplosione delle anoressie e delle bulimie, su cui gli ultimi dati ci informano che 3 milioni di persone vivono questo cattivo rapporto col cibo, che si traduce in una forma di dipendenza.
Le sofferenze nelle famiglie e le fragilità non cambiano, non avrei mai pensato che anni dopo avrebbero bussato alla porta giovani e meno giovani, a chiedere una mano per disintossicarsi, per consumare il consumismo.
Stiamo aprendo in questi giorni un’accoglienza per il digitale, una nuova dipendenza dove non c’è una sostanza di mezzo, ma c’è un fenomeno che non può essere criminalizzato, ma come tutte le cose se un fenomeno non viene governato si perde il controllo, ed in questo caso è internet, è questo viaggiare virtuale per cui migliaia e migliaia di ragazzi sono sempre connessi, alcuni ore ed ore, fino ad abbandonare la scuola. In questi casi il genitore crede che il proprio figlio sia diverso dai drogati, che non disturbi nessuno, ed ora in Italia e non solo – perché è un fenomeno che arriva da lontano – c’è un grido che deve essere raccolto, perché questi ragazzi si chiudono nella stanza, e nascono patologie.
Noi siamo chiamati, anche se nasciamo sulla strada, ad andare oltre, perché la strada guarda anche dentro i palazzi, a chi è imprigionato nelle proprie case.
L’intervento di chi lavora nelle strade, col gruppo Abele, con i poveri e con gli ultimi, in quelle strade dove continuano a vivere tutti quanti, e in questo contesto devo sottolineare che certo la povertà è materiale, è povertà culturale, ma che oggi la più grande povertà è la povertà relazionale e la solitudine, a tutte le età.
La solitudine comporta ansia, isolamento, paure, in tutte le fasce d’età, dalle persone anziane ai ragazzini.
A proposito di solitudine non posso dimenticare un torinese per cui un anno fa ho messo un pezzo di marmo, ovvero Carlo Maria Martini, che è diventato poi il grande gesuita, maestro di Papa Francesco. Nel 1984 Carlo Maria Martini spiazzò tutti parlando delle bestie, la violenza e la corruzione dei colletti bianchi, anticipando tangentopoli che scoppierà nel ’92, mentre lui già nell’84 parlò della corruzione. “E la terza è la solitudine” citando ancora Carlo Maria Martini, in riferimento alle bestie di cui parla. L’uomo che tra la sua gente, nelle parrocchie e negli oratori, aveva colto una grande povertà – che tocchiamo con mano oggi – che si rivive oggi con persone che sono nel virtuale, e per cui noi dobbiamo creare degli spazi e degli incontri per dare una mano a riempire la vita di vita, a riempirla di senso e di significato.
Bisogna aprire dei punti che accompagnino chi è affetto da tali patologie: in Italia due ospedali si sono attrezzati per questa patologia – chi l’avrebbe detto qualche anno fa?! – ma bisogna leggere i cambiamenti, i nuovi segnali che ci prendono spesso in contropiede. La strada urla per la libertà.
Con tutti i miei limiti mi rendo conto che è però necessario fare una riflessione su come sarà tra 30 anni il mondo e il nostro paese; diventa molto importante perché a volte sentiamo delle semplificazioni che liquidano, che etichettano e che emarginano, e la proiezione sono quelle sedie, perché c’è anche chi dà dei numeri ma vengono letti in base ai fattori politici e di consenso.
Io vado a prendere una lettura che per me deve trasformarsi in riflessione, in preghiera, in momenti di silenzio perché poi queste sono storie e volti delle persone.
I più grandi ricercatori del mondo ci dicono che nel giro di 25 anni ci sarà un aumento della popolazione mondiale di un miliardo e 56 milioni di persone, e raggiungeremo un totale di 8 miliardi e mezzo circa. Ci sarà un grande ribaltamento che è già in atto, e nonostante il forte calo della fecondità cinese – che cresce ma ha un suo calo – l’Asia da sola nel giro di 25 anni concentrerà il 58% della popolazione mondiale, vale a dire quasi 5 miliardi di individui su quasi ben 9 miliardi di persone. Anche in Africa la crescita sarà vertiginosa, e la domanda risulta quindi ovvia: cosa ne sarà dell’Europa? Ci dicono che, se non cambieranno gli scenari e i conflitti, l’Europa che attualmente rappresenta il 17% della popolazione mondiale scenderà al 7%. E l’ISTAT ci ha consegnato la previsione dei prossimi 50 anni per cui saremo 7 milioni in meno, ma io preferisco pensare alla previsione sui 25 anni degli organismi più liberi.
Bisogna tenere conto anche di questo, bisogna attrezzarci, perché la conoscenza è la via maestra del cambiamento, conoscere fa diventare responsabili, anche per aiutare la nostra gente a capire quali sono gli scenari futuri, perché ci sono sui migranti sempre delle semplificazioni, ma noi scenderemo al 7% della popolazione mondiale.
Basta vedere la fotografia dei giovani oggi, per cui i giovani in Italia al di sotto dei 18 anni in questo momento sono 10 milioni circa, ma ogni 100 ragazzi al di sotto dei 14 anni ci sono 105 per 5 punti oltre i 65 anni: è una società sempre più anziana. Sono cose che abbiamo il dovere di fare nostre per proiettarle, la strada ci invita proprio a fotografare tutto questo.
Dalla strada sento un grido di giustizia, e la giustizia vorrebbe il riconoscimento della dignità e della libertà di ogni persona, e l’atto del riconoscimento non è solo constatare che gli altri esistono attorno a noi, ma scoprire che esistono dentro di noi. Sentirli nelle nostre comunità è il modo per sentirli dentro di noi.
Mi hanno chiamato per l’inaugurazione della basilica della Spoliazione, perché Papa Francesco un anno fa è andato ad Assisi, e si è recato dove si è spogliato S. Francesco, e hanno deciso in quel momento che quel luogo ormai abbandonato doveva essere rimesso a posto. Hanno quindi fatto qualche mese fa una settimana di preparazione per vivere quel momento, e hanno chiamato anche me – mi sono sentito piccolo piccolo – e mi è rimasto impresso quell’affresco di Giotto nella basilica superiore di Assisi, dove S. Francesco incontra il povero sulla strada a cui cede il proprio mantello. In questa occasione dovevo parlare, e per me non è stato semplice, ma ho parlato partendo dai volti della gente, per cui la prima cosa che dobbiamo imparare è di spogliarci innanzitutto dei propri panni, per poterci mettere nei panni degli altri, per sentire la loro nudità e la loro povertà.
Questo è quello che ho imparato in questi anni, ho cercato di condividere con tanta gente questo spogliarci per metterci nei panni degli altri, ma questo modo è una delle condizioni fondamentale del nostro impegno e del nostro servizio. Siamo chiamati anche a spogliarci dei pregiudizi, delle idee false e superficiali, e sono convinto che la vita nasce col risveglio delle coscienze, ed è da lì che nasce la vita di tutti noi e dell’incontro con noi. Dobbiamo spogliarci dalle etichette che a volte ci mettono addoss; io mi sono sempre arrabbiato nonostante capisca la buona fede di tante persone, quelle facili etichette che negli anni a volte mi hanno messo, queste etichette disturbano perché non ne abbiamo bisogno. Ognuno mette in gioco ciò che si ha, e credo che coraggio e umiltà non richiedano eroismi, ma generosità e responsabilità.
In quella settimana di preparazione per l’inaugurazione della basilica mi sono permesso di dire una cosa ovvia, che la spoliazione arricchisce e che l’accumulazione impoverisce. La strada si pone delle domande: come fare affinché tutte le popolazioni siano accolte, abbiano dignità, come fare affinché tutte le persone siano chiamate per nome, non siano numeri, perché oggi abbiamo un linguaggio nel nostro mondo per cui si sacrifica, e spesso siamo impreparati e indifferenti. Per questo la strada è piena di disperazione, di smarrimento, ed allora è necessario accogliere e conoscere, occuparsi del benessere degli altri; accogliere gli altri vuol dire accogliere se stessi, non basta accogliere ma bisogna riconoscere le persone.
La strada è stata per me e per noi anche conoscenza, e una cosa che volevo condividere con voi è che per apprendere il linguaggio dei diritti, bisogna aver appreso prima quello delle relazioni, degli affetti, delle responsabilità.
Ogni cittadino deve sentirsi responsabile di esigere e tutelare i diritti dell’altro, così facendo difendiamo anche i nostri diritti, le nostre responsabilità e i nostri poteri.
Papa Francesco ha più volte detto che la più grande discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale, ci vuole un’attenzione privilegiata.
Noi con i ragazzi della tratta abbiamo delle vie di fuga, dei ragazzi che si strappano dai marciapiedi, bisogna proteggerli, e lavorare con le forze di polizia, a volte se la sentono di denunciare gli sfruttatori. Ci sono diverse vie di fuga in questa città, ma vivendo con loro tante realtà abbiamo sentito forte questo bisogno di profondità e di spiritualità, che si presenta in forme diverse.
Abbiamo fatto dei momenti di incontro, facendoci aiutare anche dell’esperienza per scendere più in profondità per aiutare a fare emergere questo bisogno profondo, che io, anche senza titolo, mi permetto di dire di averlo trovato, anche se in forme diverse, in tutte le persone.
Per me è importante saper cogliere questo, perché non dobbiamo diventare solo quelli che danno esclusivamente delle risposte tecniche, per cui nel tempo ho imparato a reagire, anche se non sempre, a due peccati del sapere – come li chiamo io. Il primo è la superficialità, è occuparsi dei problemi solo quando fanno notizia, quando fanno tendenza, quando abbiamo delle informazioni di seconda mano, per sentito dire, ed invece abbiamo la responsabilità di non essere superficiali.
Il secondo è il tecnicismo, quel parlare a volte oscuro delle proprie vite, e l’ho trovato in molti operatori, e ad un certo punto si iniziano ad usare solo dei paroloni, e invece dobbiamo recuperare – non venendo meno alla sostanza di quel che si fa – una capacità di linguaggio che accoglie e che accompagna, che aiuta ad andare incontro agli altri. Siamo chiamati a cercare Dio per incontrare le persone, ma la strada mi ha anche insegnato che è possibile cercare le persone per incontrare Dio.
Sono queste alcune sensazioni che mi sembrano molto importanti, oggi più che mai io che sono nessuno. Mi ha fatto piacere sapere che Papa Francesco mi abbia chiesto di fare parte di questo gruppo, creato in Vaticano sulla corruzione, sul crimine organizzato e sulle mafie.
È stato per me una ricchezza poter portare un piccolo contributo alle vite, alle storie e ai percorsi. Non dimentico quando un giorno chiesi a Papa Francesco se se la sentisse di incontrare migliaia di familiari delle vittime innocenti della violenza mafiosa, un migliaio, quante sono le persone coinvolte e la sua risposta, senza farmi finire, fu “Bello”.
Poi un’altra cosa che mi ha colpito è quando ad un certo punto il Papa mi disse di conoscere il tema della corruzione, perché presente anche in Argentina, e infatti aveva scritto un libricino in cui era riuscito a fotografare chi è il corrotto e chi il corruttore – questo perché è un bravo psicologo. Però parla anche della corruzione della chiesa, di noi religiosi.
Ma la cosa bella è che Francesco ha un’umiltà che mi ricorda Pellegrino: ad esempio mi disse di conoscere la corruzione, ma non quella delle mafie, e mi chiese di mandargli degli appunti – se mia madre fosse viva non crederebbe che il Papa ha chiesto a me degli appunti – e Pellegrino in questo era simile, andava a chiedere ad ognuno nel suo ambito, ed io ritengo sia un segno di umiltà sconvolgente.
Papa Francesco è venuto ad incontrare i familiari delle vittime innocenti della mafia, la lettura di quei nomi è interminabile, prese la parola e fu una parola che diventò un abbraccio nei loro riguardi, e nel suo intervento, seppur breve ma profondo, per tre volte richiamò la responsabilità che ciascuno di noi ha nel denunciare la corruzione, e disse di non poter finire senza dire una parola nei confronti dei grandi assenti, ai protagonisti assenti, agli uomini e alle donne mafiose, e disse “per favore convertitevi, fermatevi e smettete di fare il male”. Il primo colpo di scena che colpisce tutti, ad un familiare a cui hanno ammazzato le persone più care, e il Papa dice di voler parlare agli assenti. Compie lo stesso gesto di Paolo VI, quando in quella drammatica notte scrisse quella drammatica lettera “Uomini delle brigate rosse liberate l’onorevole Aldo Moro, ve lo chiedo in ginocchio”, Papa Francesco che cita spesso Paolo VI dice ancora “convertitevi, fermatevi, smettete di fare del male, noi preghiamo per voi ve lo chiedo in ginocchio, è per il vostro bene”. Poi taglia corto, similare a Giovanni Paolo II quando ai tempi aveva gridato “arriverà il giorno del giudizio divino”, Papa Francesco dice “se non fate così andate all’inferno”. È molto sbrigativo, però dà la possibilità di vedere la luce, di poter cambiare, di offrire veramente quello che dobbiamo fare sempre in questo senso, la corruzione e le mafie sono veramente la peste nel nostro Paese, sulle quale noi siamo chiamati a riflettere profondamente.
Un dato che fotografa la corruzione e la mafia nel nostro Paese, che emerge dalle inchieste, dagli arresti e da tutta una serie di elementi che si raccolgono, ci consegna una realtà sulla quale noi, nel nostro Paese, siamo chiamati a confrontarci: nonostante gli arresti e le condanne – vi cito il rapporto serio, perché su queste cose non bisogna essere faziosi ma responsabili – le mafie stanno benissimo, la ‘ndrangheta soprattutto. Il quadro della Direzione nazionale antimafia e dell’antiterrorismo dice che il 2016 è stato un anno di successi investigativi e processuali, ma che al tempo stesso le mafie storiche non sono in crisi, cambiano pelle e strategia, per adattarsi ai vuoti provocati dagli arresti, dalle condanne, e dalle modificazioni del mercato. Le mafie sono forti. Noi siamo chiamati a prendere conoscenza della strategia del meno sangue, o del poco sangue, la scelta infatti degli ultimi anni è la corruzione, tutto questo non a Napoli.
A Napoli c’è la ferocia dei camorristi, sono vent’anni di omicidi, è una guerra che si sta consumando, è la guerra dei ragazzini soprattutto, ma la camorra nel casertano o nel beneventano ha già una nuova strategia, ovvero di lasciare Napoli, perché anche la camorra fuori da quel territorio ha una nuova strategia di lungo respiro; tutta la camorra si basa sull’infiltrazione negli appalti pubblici, nei servizi pubblici, ed è sempre più agevolata da collegamenti stretti con la politica e con gli imprenditori.
I nuovi capi sono imprenditori mafiosi, uomini d’affare, c’è un mutamento che incide sulla loro strategia, che è la via negoziabile, che è estrinsecazione del metodo collusivo-corruttivo ad ogni livello.
In Sicilia Cosa Nostra ha preso un sacco di batoste questi anni, ma ha ragione il questore – un bravo ragazzo di nome Cortese – di Palermo che dice che oggi stanno uscendo i boss che erano andati in carcere col maxi processo dell’87; dopo 25/30 anni stanno uscendo e non c’è nessuno che li intercetta, ma soprattutto ci sono fasce di giovani che stanno occupando gli spazi vuoti, citando il rapporto che dice che Cosa Nostra è capace di mettere in atto un’opera molto attiva di infiltrazione in ogni settore dell’attività economica e finanziaria, e soprattutto infettando la cosa pubblica.
Il metodo collusivo-corruttivo ha quindi preso piede nell’ordine mafioso, con più determinazione e più forza, ha progressivamente sostituito gli omicidi e le azioni di fuoco, ma è così tanto presente la violenza nella memoria collettiva di quei territori da avere tuttora la valenza intimidatoria, perché la gente ha paura. L’obiettivo di oggi con queste nuove modalità è quello di sempre, è il profitto, che negli anni di crisi si concretizza soprattutto negli appalti pubblici, e non solo, perché le mafie hanno aperto filoni nuovi, mai come oggi il mercato dell’eroina è ritornato più forte di 25/30 anni fa.
Una sovrapproduzione dell’oppio, ma incide soprattutto il fatto per cui le organizzazioni criminali mafiose hanno tagliato del 50% il prezzo dell’eroina, ma nel frattempo sono venute meno la prevenzione, i percorsi educativi, gli strumenti alle famiglie e ai ragazzi, i servizi si sono ridotti e l’eroina è tornata ai massimi livelli.
Nel frattempo si è accresciuto il gioco d’azzardo, e quelle maledette macchinette che impoveriscono le persone; abbiamo questa dimensione delle vite digitali, siamo chiamati a non dimenticare le cose belle e le cose positive che ci sono, la meraviglia, ma dobbiamo anche accogliere questo grido che si esprime. Il metodo collusivo/corruttivo viene fuori come la scoperta di quest’anno, che a molti è sfuggita; alla Procura di Reggio Calabria c’è un procuratore – che non scrive tanti libri visto che lavora dalla sera alla mattina, che si chiama Nicola Grattieri e che è un uomo umile, un grande procuratore – che sta prendendo tutti i latitanti, perché quando arriva un buon procuratore arrivano quelli della DIA, quelli della giudiziaria, arrivano gli investigatori che chiedono il permesso al procuratore capo per ascoltare i collaboratori di giustizia, per andare in carcere, per andare a cercare gli informatori. Lui però non dà il permesso a nessuno e qualcuno si è sentito disturbato, perché il procuratore non ti dà il permesso di usare quei canali, ma nel frattempo lui ha già preso quasi tutti i latitanti del suo territorio, usando un’altra strategia: non ha fatto grande chiasso, ha tolto dei canali -anche di buona fede -, ma quando ci sono troppi passaggi c’è sempre qualcosa che scivola via. La ‘ndrangheta è la più forte, è la più trasversale, quella che veramente ci impoverisce tutti, e allora le mafie, e la ‘ndrangheta in particolare, sono capaci di accaparrarsi oggi il territorio nazionale anche grazie al coordinamento che loro hanno scoperto di queste proiezioni strategiche. Finalmente qualcuno che abbia capito cosa ci sia dietro a questa grande potente organizzazione; nel rapporto della scorsa settimana si parla di minacce e, citando il rapporto, ci dice che “in ragione delle sue capacità di contaminazione, la ‘ndrangheta è una minaccia per la stessa democrazia”.
Con le loro indagini hanno permesso di individuare una direzione strategica della ‘ndrangheta e di alcuni dei suoi componenti: la Santa, una nuova organizzazione, che non ha a capo militari, ma professionisti, pubblici funzionari, deputati, senatori e purtroppo anche un sacerdote – speriamo si dimostri che non sia così, però è una lettura scomoda che ci porta a riflettere, perché diventa importante.
La corruzione è fortissima nel nostro Paese e veramente ci impoverisce, il denaro è lo strumento fondamentale della corruzione, ma non necessariamente il denaro contante, anche quello che si traduce in favori, raccomandazioni o privilegi, è una forma di corruzione, e la corruzione ha la sua radice nell’idolatria del denaro. Una società che fa del denaro un idolo è una società corrotta, dove non esiste più il concetto di bene comune, dove un diritto di tutti è diventato un privilegio di pochi.
La corruzione strozza la dignità delle persone, imprigiona la loro libertà.
Ha ragione Papa Francesco a chiedere di unire, ha fatto in modo che questo incontro più ristretto ma a livello internazionale fosse aperto anche ad altri, non ha voluto che fosse solo una riflessione all’interno di casa nostra, perché la corruzione chiama in gioco tutti, dato che è l’anticamera delle malattie, che permette queste collisioni. Grazie alla scelta di meno sangue, di una forma militare minore attuata dalle mafie, e al contempo all’attuazione di diverse e più forme di penetrazione, le leggi risultano sì importanti ma insufficienti.
La corruzione è un male che va estirpato nella sua radice culturale: l’idolatria del denaro, l’illusione che la ricchezza e il potere portino la felicità, difatti per il denaro si corrompe e ci si lascia corrompere, ci si vende e ci si lascia comprare.
Il gruppo Abele da 52 anni è capitato così, prima della strage di Capaci mi sono trovato a Gorizia, con un signore di nome Giovanni Falcone, durante un corso di formazione per la Polizia di stato sul tema delle dipendenze e della droga. Lui trattava degli aspetti legislativi, io dell’accoglienza, del sostegno alle famiglie ed ai ragazzi; ci siamo salutati dandoci un appuntamento che non sarebbe mai avvenuto.
Quel sabato 23 maggio 1992 mi trovavo in Sicilia per un corso di formazione per gli insegnanti delle scuole sul tema delle dipendenze, 57 giorni dopo ero a Palermo, ed era un sabato quel 18 luglio e mi trovavo con dei gruppi di Palermo per un lavoro per l’Unione europea sul tema delle dipendenze per fornire al mondo della scuola e agli educatori – perché educare è fondamentale in questo mondo – degli strumenti di conoscenza. Fu un lavoro collettivo, fatto con quel noi e con quello spirito, ed è lì che nacque Libera, che nacque l’idea di conoscenza rispetto alla Sicilia, a quel caso, ai gruppi e alle realtà palermitane.
Io non ho mai dimenticato le parole di don Sturzo, quando nel 1900 disse “la mafia vive in Sicilia, ma la testa forse è a Roma” e aggiunse poi una drammatica profezia “risalirà sempre più forte e più crudele verso il nord fino per andare oltre le Alpi”: don Sturzo segnò questa traccia.
Nasce il desiderio di prendere coscienza del fatto che la mafia è un problema trasversale, l’abbiamo detto in quel gruppo di lavoro in Vaticano, quando già nel 1944 i vescovi siciliani avevano fatto presente il problema; seppure con un altro linguaggio, non si parlava di mafia, ma di crimini e di violenza. Però anche Giovanni Paolo II aveva gridato contro le mafie, così ancora Papa Francesco dopo l’incontro con i familiari.
Cito di nuovo Falcone che diceva che “la battaglia contro la mafia è una lotta di legalità e di civiltà”; forse abbiamo molto enfatizzato la legalità e abbiamo fatto meno civiltà. Civiltà vuol dire lavoro, vuol dire famiglia, cultura, sociale.
Le mafie non sono figlie della povertà e dell’arretratezza, ma della povertà e dell’arretratezza si avvalgono, perché trovano terreno fertile, trovano i picciotti per poter agire; a tal proposito in Italia un giovane su tre si ferma nei primi anni delle scuole superiori, e la domanda da porsi è dove vanno, chi se ne occupa? 1.300.000 giovani, ci dice l’Istat, non studiano e non lavorano, e la domanda che si ripropone è la stessa.
Nel nostro Paese, nonostante un notevole miglioramento che bisogna sostenere e incoraggiare, infatti siamo scesi dal 25% della disoccupazione scolastica al 17%, con delle punte ancora alte soprattutto in alcune regioni, siamo agli ultimi posti in Europa. Tonino Bello direbbe di alzare la voce quando in molti scelgono il potere silenzio, perché tutti si preoccupano dell’infanzia dei ragazzi, allora uno va ad informarsi sulla spesa per i nostri bambini, per gli asili nido, per l’infanzia, e la spesa europea è documentata e la media è del 9%, mentre in Italia è del 4,5%, quindi tocca anche noi – umilmente, sempre in modo serio, documentato, mai retorico, mai fazioso – alzare la voce quando in molti scelgono il potere del silenzio, perché è giusto.
Papa Francesco si documenta, ha tanta umiltà, chiede a chi ha le competenze che gli portino dei contributi, e alza questa voce dove vede calpestata la libertà. La presenza della corruzione ha dei vertici spaventosi nel nostro paese, la presenza mafiosa, richiama il nostro dovere di alzare la voce per chiedere ciò che è giusto.
Il fondo delle politiche sociali che anni fa ha raggiunto il miliardo è sceso a 178 milioni, il Parlamento europeo contro la miseria chiede ai paesi di introdurre reddito minimo garantito che l’Italia però non ha creato, come dovrebbe, ma ha fatto solo una piccola parte che accontenta solo una piccola fascia di popolazione. Il 19 gennaio di quest’anno il Parlamento europeo ha fatto nuovamente una risoluzione in cui dice della necessità urgente di contrastare la crescente miseria e l’aumento senza precedenti delle disuguaglianze attraverso la costruzione come pilastro europeo dei diritti sociali, e al centro l’Europa ripropone a tutti i suoi paesi membri il reddito minimo garantito, che vuol dire rispondere alle persone che vertono in uno stato di povertà assoluta, per non cronicizzare la situazione.
La strada a me ha insegnato questo, Francesco alza il suo tono della voce con molta forza.
Tre aspetti oggi mi sento di tradurvi, il primo lo prendo proprio da Papa Francesco: la radicalità del Vangelo, quella che mi fa piacere di aver ritrovato in queste testimonianze, perché Francesco incarna una Chiesa umile e non giudicante, una Chiesa dove la forza della dottrina si misura nella capacità dell’accoglienza, una Chiesa che non esclude nessuno, a partire dai poveri, dai deboli, dai discriminati.
Il secondo è umanizzare la fede: Francesco la traduce in gesti e parole che colpiscono anche le sensibilità dei laici, dei non credenti, e ricorda a tutti, a partire dai cristiani, che il Vangelo è innanzitutto ricerca e costruzione di giustizia, e assunzione di responsabilità.
Il terzo passaggio è superare il violento: Francesco denuncia la corruzione del potere senza mezzi termini, che sia quello dell’economia che uccide la dignità in nome del profitto, della politica che perde il senso del servizio al bene comune, ma anche della Chiesa stessa quando promuove un essere cristiano accomodante, come dice il Papa, da salotto, incapace di svegliare le coscienze e di indurre all’intento.
Ho avuto un privilegio, mi è stato chiesto nell’anno della misericordia del giubileo di tenere un corso alla gendarmeria vaticana, per riflettere e pregare in piccoli gruppi, e per me è stata una grande gioia.
Lo stesso quando mi è stato chiesto di fare un incontro con la Curia romana, dopo che il Papa il 23 dicembre aveva presentato il suo programma sul cambiamento, con quel passaggio sulle resistenze meraviglioso; la curia romana è fatta di migliaia di persone, è fatta di laici, di cattolici, religiosi, di figure femminili che hanno bisogno di informazione, ed a me è stato chiesto di fare un pezzo sulle motivazioni per dare una mano a leggere quello che è il fulcro della curia romana. L’ho fatta con una gioia immensa, che mi ha arricchito, è un contributo piccolo, ma fatto di amore e di riconoscenza.
Stamattina ho celebrato un funerale, di Beppe Picco, era un ladro di polli che quando finiva in carcere metteva i detenuti tutti insieme, faceva spettacolo, faceva i cori, e quando finiva la sua pena tutti i detenuti chiedevano che non uscisse perché era il grande animatore all’interno del carcere, ed era sposato con una psichiatra da cui ha avuto due adorabili ragazze. Picco era un uomo di strada, e quando era fuori faceva mobili, era un uomo libero ed attorno a lui tutti lo conoscevano; è stata una di quelle figure che hanno attraversato la città con i veri poveri, e una delle sue figlie è diventata un’artista come lui, mentre l’altra è diventata psichiatra come la madre. In questa chiesa, che non è parrocchia, in via Santa Teresa a Torino, abbiamo celebrato questo momento di riflessione, di preghiera, questo “ciao”. Lui era un figlio d’arte, suo padre riparava gli affreschi, e nella Val di Lanzo il padre, soggetto estroso, chiese in una parrocchia della valle di recuperare un affresco, e allora tutte le impalcature venivano fatte con i legnami, e non toglieva l’impalcatura e disse al parroco di non preoccuparsi, che l’avrebbe tolta, ci avrebbe messo un bel lenzuolo sopra, una bella corda e quando ci sarebbe stata l’inaugurazione avrebbe potuto tirar giù e vedere tutto il restauro svolto, e quando tutte le autorità andarono per vedere il nuovo affresco recuperato, aveva fatto a tutti gli angioletti la faccia del martello, un soggetto veramente estroso. Questo ladro di polli a Torino è un uomo della strada, e quest’oggi in quella chiesa ho trovato il popolo della strada così colorato ma anche così vero, che mi avete chiesto di portare qui.
(Tratto dalla registrazione. Non rivisto dall’autore)