Giuseppe Piva sj, membro del Comitato nazionale del cammino sinodale italiano, si occupa di spiritualità “dalle frontiere” e di pastorale con persone LGBT+
Mi hanno sempre fatto riflettere molto quelli che potremmo definire gli orientamenti pastorali di Gesù; controintuitivi rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati secondo le attese religiose di Israele… Gesù stesso, in quanto giudeo praticante, più e più volte sembrava fosse attirato dal fascino della terra che più rappresentava quelle attese: la Giudea; e la città che ne era il centro spirituale, politico e ideale: Gerusalemme. Nato a Betlemme, la città regale di Giudea, con la sua famiglia si ritrova poi a vivere in quel villaggio sperduto tra le montagne di Galilea, a Nazareth. A dodici anni – il tempo del riscatto dall’autorità familiare e della prima esperienza diretta della voce del Padre che è nei cieli – è attirato dal tempio di Gerusalemme, e, quindi, sembrava fosse quello il luogo e la città dove approfondire la sua relazione con Dio e crescere nella sua vocazione messianica… E invece il Padre lo rimanda di nuovo a Nazareth, in obbedienza a quegli improbabili tutori – Giuseppe e Maria – rispetto ai più qualificati e sapienti scribi, sadducei e farisei di Gerusalemme. Ma cosa avrà mai avuto di così particolare la Galilea per risultare il contesto ideale dove il Messia potesse meglio comprendere e crescere nella sua vocazione? Galilea dei pagani l’aveva chiamata Isaia (8,23), e Matteo gli ha fatto eco (4,13-15); terra di frontiera e di meticciato sociale, religioso e politico; una terra dove anche i giudei osservanti dovevano venire a patti con l’impossibilità di osservare la necessaria separazione dagli infedeli, anche loro concittadini di quella terra da secoli; e quindi nella necessità di andare alla sostanza della vita religiosa, piuttosto che fare attenzione agli accessori; la necessità di andare… al cuore. Comprendo bene, allora, la dura correzione che Nicodemo è costretto a subire: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!» (Gv 7,52). E ancora, per il suo battesimo e l’esplicita rivelazione della sua identità profonda («Tu sei il figlio mio, l’amato» Mc 1,11) e vocazione messianica, Gesù è tornato in Giudea, dal Battista Giovanni. Nel deserto di Giuda vive il suo discernimento più radicale, programmatico per la sua missione e, per questo, delicatissimo ed esposto alle altrettanto radicali tentazioni. Eppure, da quel discernimento a tu per tu con il Padre, di nuovo compare la Galilea come contesto primo e opportuno del gioioso annuncio (euangélion) del regno di Dio. Perché non partire dal centro della fede di Israele: Gerusalemme e il suo tempio? Perché giungere lì solo alla fine, al compimento di tutto, per poi ripartire di nuovo per la Galilea (Mt 28,7.10)? Perché la periferia e la frontiera etnica, politica e religiosa sarebbe un contesto più opportuno per la predicazione del Regno? Anzi, affinché questa scelta programmatica fosse più chiara ed evidente, Gesù ha scelto Cafarnao come sua città (Mt 4,13; 9,1) da cui andare e venire. Città situata sulla riva nord del mare di Galilea, Cafarnao era attraversata dalla via Maris, la grande via di comunicazione antica che collegava popoli diversi da Damasco fino all’Egitto. Al confine tra il regno di Erode Antipa e quello di Filippo, suo fratello, a Cafarnao vi era anche la dogana controllata da un distaccamento romano, con tanto di centurione. Città di frontiera, dunque, frequentata da gente di frontiera, questa cittadina è il contesto primo dove Gesù, il galileo, trova ovvio annunciare il regno di Dio per tutti, tutti, a qualsiasi altro regno appartengano. Queste opzioni di Gesù non rispondono tanto a una opportunità geografica o a una strategia di sopravvivenza (ai margini si è meno controllati); no, sono veri e propri orientamenti pastorali, resi ancor più chiari da eventi inattesi anche per Gesù, rivelativi dei veri orientamenti pastorali del Padre stesso. Infatti, Gesù non poteva certo aspettarsi che il centurione di Cafarnao chiedesse il suo aiuto per il timore di perdere un suo servo; un padrone che tiene così tanto alla salute e alla vita di uno schiavo non poteva che attirare la sua attenzione (cf. Mt 8,5-13). È in queste situazioni che Gesù mette in atto atteggiamenti – e parole – che ben rivelano la sua visione e i mezzi per incarnarla. Accetta, senza questioni, di entrare nella casa di questo pagano infrangendo regole religiose stringenti; e, vista l’attenzione e lo scrupolo che costui manifesta pur di salvaguardarlo dalle accuse dei capi religiosi, Gesù riconosce stupito la fede che il pagano nutre nei suoi riguardi e, attraverso di lui, nei riguardi del Dio di Israele: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! Ora io vi dico che molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori». Non ci sono dubbi, dunque, sul fatto che l’orizzonte di Gesù e del Regno sia il mondo intero, tutti i popoli, senza chiedere loro di lasciare le loro appartenenze culturali, ma semplicemente credere nella potenza e nell’amore del Padre. Per non parlare della Cananea (Mt 15,21-28): davvero un incontro inaspettato per Gesù! Se ancora avesse avuto una qualche prospettiva religiosa di tipo nazionalista («Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele»), di fronte alla professione di fede di quella donna pagana Gesù ha dovuto ricredersi di nuovo e cambiare prospettiva («Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri»). In lei Gesù riconosce il riflesso del cuore del Padre che ama tutti i suoi figli a qualunque popolo appartengano; ciò che il Padre brama con affetto viscerale – come quella donna per la figlia – è la vita per tutti loro. A partire da questi pochi esempi evangelici – tra i tanti, tantissimi dello stesso genere (Zaccheo, l’adultera, la samaritana, il samaritano, il centurione sul Golgota, e tanti altri) – potremmo domandarci: questo è il modo in cui Gesù avvicina i «lontani»? Chi sono per Gesù i «vicini»? I vicini sono i suoi discepoli, dagli occhi e orecchi chiusi (Mc 8,18) che lo rinnegheranno e tradiranno? O lo sono i capi religiosi che lo mettono a morte, o che lasciano morire il moribondo sulla strada da Gerusalemme a Gerico (cf. Lc 10,29-38)? Qual è il criterio di «vicinanza» e «lontananza»; di «appartenenza» e «prossimità» per Gesù? Capiamo, allora, che, se l’orizzonte è il Regno e il criterio è l’amore di Dio, molti dei nostri criteri pastorali saltano o, meglio, non trovano più un chiaro fondamento.
La «frontiera» come criterio pastorale
Papa Francesco, soprattutto in Evangelii gaudium, parla di «Chiesa in uscita», «periferie esistenziali». Io mi trovo spesso a usare la categoria della «frontiera», «spiritualità dalle frontiere». Appare chiaro dall’esperienza di Gesù, e degli apostoli nelle loro prime attività pastorali raccontate nel libro degli Atti, che la periferia, la frontiera, i confini non sono opzioni pastorali tra le tante possibili, ma sono categorie che invece descrivono la sostanza della Chiesa; sono criteri per definire cosa è la Chiesa di Cristo e cosa non lo è. Sappiamo bene, a partire dalle nostre parrocchie, quanto la «frontiera» sia in realtà una linea che attraversa e caratterizza tutta la realtà pastorale. Nei nostri gruppi parrocchiali, nei consigli pastorali, tra i responsabili di servizi e ministeri ecclesiali, nelle associazioni e movimenti, ciascuno di noi vive situazioni, relazioni, contatti, servizi e attività che toccano direttamente e indirettamente situazioni che definiremmo di «frontiera» e «marginalità ecclesiale». Prendiamo ad esempio i bambini/ragazzi che frequentano la catechesi sacramentale nelle nostre parrocchie (cosa c’è di più ordinario di questo?); oppure ragazzi e giovani che frequentano i nostri gruppi parrocchiali: ci sono tra loro alcuni che appartengono a famiglie che provengono da paesi extracomunitari con diverse tradizioni culturali o addirittura religiose? Oppure altri che manifestano identità affettive e sessuali non maggioritarie? E quanti di loro hanno genitori in situazioni coniugali che ancora oggi diremmo «regolari» (una mamma e un papà, legati da un matrimonio sacramento, sotto lo stesso tetto)? E i nostri catechisti, animatori parrocchiali, educatori e capi sono tutti eterosessuali? E se non lo sono, possono condividere liberamente la loro identità «di frontiera»? Le relazioni coniugali dei nostri operatori pastorali sono tutte matrimonio-sacramento? Oppure sono convivenze, seconde unioni dopo un divorzio, o unioni civili? Quanti sono separati? E lo stesso, tra gli appartenenti ai nostri consigli pastorali, nei nostri incontri formativi o biblici, nelle nostre assemblee eucaristiche domenicali, ci sono persone provenienti da altri paesi, da altre tradizioni culturali e, perché no, da altre tradizioni religiose cristiane? In queste assemblee, qual è la percentuale delle coppie «regolari» secondo le norme morali della Chiesa cattolica che, tra l’altro, chiede ai fidanzati di non avere rapporti prematrimoniali e ai coniugati di non usare «contraccettivi»? E siamo certi che tutti i figli delle nostre coppie eterosessuali non siano venuti al mondo con una fecondazione eterologa (se non, addirittura mediante gestazione-per-altri)? Quando celebriamo la «festa della famiglia» nelle messe domenicali con iniziative varie, teniamo conto che la maggior parte di chi frequenta non è in condizioni di festeggiare allo stesso modo? Eppure, tutti partecipano e si sentono parte della comunità cristiana, senza dubbio (a meno che qualche zelante non indichi loro la porta o la sbarra della dogana, per dirla con papa Francesco). E questi sono solo alcuni, minimi esempi, perché sappiamo bene che la realtà supera sempre la fantasia, «la realtà è superiore all’idea», dice Evangelii gaudium. Per questo, quando parliamo di «vicini» o di «lontani» di cosa o di chi stiamo parlando? Il confine e la frontiera attraversano già le nostre comunità, le nostre famiglie, tutte le nostre realtà ecclesiali; e con l’esempio di Gesù e delle prime comunità cristiane, la differenza tra chi appartiene o non appartiene alla Chiesa non la fa l’osservanza di una norma, ma la volontà di accoglienza, implicazione e integrazione al modo dell’amore di Dio. Anche per questo la Chiesa è «cattolica». Da questo punto di vista le due esortazioni apostoliche più importanti del pontificato di papa Francesco, Evangelii gaudium e Amoris laetitia sono molto chiare: «Due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare. La strada della Chiesa, dal concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […] Pertanto, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 296). «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino» (AL 297).
La «gerarchia delle verità»
Circa Evangelii gaudium ritengo importante ricordare l’insistenza di papa Francesco sulla «gerarchia delle verità», da lui presentata come un fondamentale criterio pastorale. Nel 2013, quando uscì questa esortazione apostolica, non eravamo abituati ad ascoltare l’espressione «gerarchia delle verità». Eravamo piuttosto abituati – almeno in ambito italiano – all’espressione «valori non negoziabili» che, in estrema sintesi, indicava quei valori legati alla bioetica, alla morale sessuale e familiare che la cultura postmoderna sembrava disconoscere. E invece, con EG abbiamo scoperto che la «gerarchia delle verità» è, in realtà, una espressione del Vaticano II. Citando il decreto conciliare Unitatis redintegratio 11, EG 36 ricorda che: «esiste un ordine, o piuttosto una “gerarchia” delle verità nella dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana». Citando s. Tommaso D’Aquino, EG 37 trova questo fondamento nella «fede che si rende operosa per mezzo della carità», e ancora: «La misericordia è in sé stessa la più grande delle virtù». Quindi, una verità tanto antica da risultare nuova nel 2013! Cito di seguito il n. 38 di EG, che ci fa capire la nuova/antica prospettiva di papa Francesco: «È importante trarre le conseguenze pastorali dall’insegnamento conciliare, che raccoglie un’antica convinzione della Chiesa. Anzitutto bisogna dire che nell’annuncio del vangelo è necessario che vi sia una adeguata proporzione. Questa si riconosce nella frequenza con la quale si menzionano alcuni temi e negli accenti che si pongono nella predicazione. Per esempio, se un parroco durante un anno liturgico parla dieci volte sulla temperanza e solo due o tre volte sulla carità o sulla giustizia, si produce una sproporzione, per cui quelle che vengono oscurate sono precisamente quelle virtù che dovrebbero essere più presenti nella predicazione e nella catechesi. Lo stesso succede quando si parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del papa che della parola di Dio». E il n. 39: «Quando la predicazione è fedele al vangelo, si manifesta con chiarezza la centralità di alcune verità e risulta chiaro che la predicazione morale cristiana non è un’etica stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di peccati ed errori. Il vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza!».
Cammino sinodale italiano
Mi permetto, a questo punto, di citare uno dei documenti scaturiti dai lavori del Comitato nazionale del cammino sinodale italiano, di cui faccio parte; documenti che non sono stati ancora pubblicati ma che so di poter citare, e dai quali prenderanno forma i Lineamenti per la prossima assemblea del cammino sinodale italiano. È un lungo passaggio della prima Commissione: Una Chiesa missionaria con lo stile della prossimità. Una comunità chiamata a riconoscere, accogliere, camminare insieme e prendersi cura, abitando la storia. «Il sogno di Dio cui orienta il Regno è ben più grande della Chiesa e interessa l’intera famiglia umana e il creato tutto. Siamo, cioè, in cammino verso un Regno che ha posto per tutti e tutte e raccoglierà tutti i popoli, perché è destino/destinazione del mondo voluto da Dio; per ora, però, esso è in mezzo a noi misteriosamente e non appartiene a nessuno. Si pensi alla parabola del lievito: non si tratta di trasformare tutta la farina in lievito, giacche essa è destinata a trovare la sua pienezza nel pane (Lc 13,20-21); così la Chiesa è comunità al servizio di una comunione più ampia. Allenare la capacità di gioire, con serena ammirazione e rispetto, per le tracce del Regno che lo Spirito suscita “fuori” da quello che consideriamo il perimetro della Chiesa, è fondamentale per sciogliere le rigidità cui ci costringe la preoccupazione di definire chi e cosa è “dentro” e chi e cosa resta “fuori” da “esso”». «Occorre superare una certa idea di “pastorale” (fare iniziative per altri) che sarebbe distinta dalla spiritualità (la nostra, di ciascuno di noi, propria e originale esperienza di fede). Da questa errata distinzione nasce quella distorsione che classifica i livelli di appartenenza alla comunità ecclesiale e ragiona in termini di dentro/fuori […] Siamo chiamati allora a passare da una logica escludente del dentro/fuori a una di implicazione. Tutti sono potenzialmente implicati nel tessuto della vita ecclesiale, che siano più o meno riconosciuti, visibili, riconoscibili. Le persone implicate ci sono, anche se stanno tra le pieghe e non si espongono o non vengono viste. Pensiamo ad esempio a tutte quelle persone, pur magari organiche alla vita quotidiana della comunità e impegnate anche in servizi ecclesiali, che non sono “implicate” realmente perché il loro vissuto personale, la loro storia intima, i loro dolori appaiono a sé stesse indicibili, possibile motivo di esclusione o importuna commiserazione. Si pensi alle situazioni di donne vittime di coniugi violenti, di persone con HIV o altre patologie che portano ad autoescludersi, ai figli di famiglie ferite e in difficoltà, o etnie, a gruppi sociali ritenuti pericolosi, a persone segretamente omoaffettive o transgender, ex carcerati o loro familiari, ecc… Ma ci sono anche coloro che semplicemente non si sentono adeguati, all’altezza o ben voluti, oppure per diversi motivi vivono un’esistenza triste o in solitudine; vi sono i poveri, che dovremmo imparare a considerare come i primi destinatari della beatitudine del Regno. Una rinnovata attenzione ad ampio raggio, rivolta a tutti i soggetti implicati, aiuterebbe a delineare la figura – cara agli Atti degli apostoli – di una comunità che cresce accogliendo quanti il Signore aggiunge alla moltitudine dei credenti».
«L’accoglienza è s-recintare l’incontro con l’altro, è il contrario dell’inclusione. Nel suo significato, infatti, includere è portare qualcosa dentro un perimetro già definito e integrare l’altro dentro qualcosa di già fissato, ma tale concetto va radicalmente messo in discussione. La comunità non è inclusione, ma continuo slabbramento dei perimetri ed eliminazione dei paletti che recintano un campo, per disegnare altri perimetri insieme all’altro che arriva. Fare comunità implica un lavoro di costruzione di uno spazio nuovo abitabile da tutti quelli che lo desiderano, anche se magari finora ritenuti incompatibili con l’esperienza comunitaria ordinaria. Spazi-comunità “casa-per-tutti”, come la locanda del samaritano».
Il «bene possibile»
Ed è a questo punto che mi sembra opportuno ricordare un altro fondamentale criterio di discernimento pastorale riportato in EG, che permette a quello più generale e oggettivo della «gerarchia delle verità» di incarnarsi opportunamente nell’esistenza concreta di ogni persona, nell’unicità del proprio vissuto; e così portare alle estreme conseguenze l’opzione di fare dell’amore di Dio il criterio originario e radicale di ogni scelta ecclesiale e pastorale. Intendo il criterio del «bene possibile»: «Pertanto, senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. […] Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (44). «[…] Vediamo così che l’impegno evangelizzatore si muove tra i limiti del linguaggio e delle circostanze. Esso cerca sempre di comunicare meglio la verità del vangelo in un contesto determinato, senza rinunciare alla verità, al bene e alla luce che può apportare quando la perfezione non è possibile. Un cuore missionario è consapevole di questi limiti e si fa “debole con i deboli […] tutto per tutti” (1Cor 9,22). Mai si chiude, mai si ripiega sulle proprie sicurezze, mai opta per la rigidità autodifensiva. Sa che egli stesso deve crescere nella comprensione del vangelo e nel discernimento dei sentieri dello Spirito, e allora non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada» (45). «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (270). A cui fa eco Amoris laetitia: «[…] Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada” (EG 45). I pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare» (308).
Pastorale «di frontiera»?
Tornando alla domanda posta nel titolo di questo articolo, come potremmo rispondere? Mi è capitato un’altra volta di impostare un articolo di pastorale con una domanda di fondo: nella rivista Credere oggi, parlando della Pastorale con persone Lgbt+, nel titolo avevo aggiunto un punto interrogativo.[1] E come allora, ritengo che parlare di «pastorale di frontiera» sia sbagliato, o per lo meno inadeguato. Come ormai non ha più senso parlare di pastorale «per», visto che la pastorale – a mio parere – non ha dei «soggetti» che operano e degli «oggetti», o «utenti» che ricevono un servizio… Nella prospettiva biblico-cristiana il soggetto della pastorale è tutto il popolo di Dio, articolato nelle infinite vocazioni e ministeri che di volta in volta riceve dallo Spirito, come riflesso della cura di Dio per tutti e ciascuno. Sarebbe meglio questa diversa espressione: «la frontiera come pastorale», intendendo che la categoria di «frontiera» indica la natura stessa della pastorale: essere «in frontiera» proprio alla maniera della prima comunità degli Atti degli apostoli che si trovava a essere essa stessa «frontiera» per le visioni religiose dell’epoca; e poi si è trovata a vivere e operare di frontiera in frontiera, Gerusalemme compresa, fino ai confini della terra. Ma la frontiera non è solo l’essenza della pastorale, ma ne è anche «metodo», criterio. Come la Galilea per Gesù: ha informato strutturalmente la sua prassi pastorale, la sua relazione con la Legge, con il tempio, con la pratica religiosa; tutto, a partire dalla Galilea, ha avuto una prospettiva del tutto diversa. In frontiera si comprende immediatamente ciò che è essenziale e ciò che è accessorio (vedi la «gerarchia delle verità»). In frontiera non ci sono autostrade certe e sicure, ma solo mulattiere e sentieri aperti dalla personale esperienza di qualcuno (vedi il «bene possibile») che, se utili, vengono percorsi anche da altri, a loro rischio e pericolo. Per questo la frontiera è il luogo del discernimento continuo, personale e comunitario, il luogo della coscienza che traccia i cammini opportuni qui e ora a partire dai riferimenti universali: il sole (l’esperienza dell’amore di Dio), le stelle (gli esempi dei padri e della Chiesa), la bussola (il vangelo), e niente più! Il discernimento, quindi, non è una moda ecclesiale moderna, ma è il metodo di Gesù, è la via su cui di epoca in epoca si è strutturata, destrutturata e ristrutturata la Chiesa, e continuerà a farlo per essere strumento, mezzo sempre più utile per il regno di Dio.
Tratto da Orientamenti Pastorali 7/8(2024), EDB, tutti i diritti riservati
[1] G. Piva. «Una pastorale per le persone LGBT+?», in CredereOggi, 43 [1/2023] n. 253, p. 114-131.