Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile C. Beccaria di Milano

Se dovessi guardare la realtà dei giovani che incontro nell’Istituto penale minorile «C. Beccaria» di Milano e nella comunità di accoglienza «Kayròs» dove vivo, il quadro, a prima vista, potrebbe sembrare disperante. Sono più di cinquecento gli adolescenti autori di reato detenuti nei 17 istituti penitenziari minorili italiani (soltanto una ventina le ragazze e oltre la metà i minori stranieri non accompagnati): ragazzi e ragazze che giungono in carcere travolti da un disagio esistenziale profondo e che appartengono trasversalmente a tutti i ceti sociali. Ci sono i figli di famiglie disgregate e assenti, provenienti da contesti di povertà educativa ed economica; ci sono anche i figli cresciuti in buone famiglie, coccolati e soddisfatti in tutto da genitori onnipresenti e molto richiedenti in termini di risultati scolastici e di prestazioni di successo in ogni ambito.

Il disagio adolescenziale che incontro in carcere ha cause di tipo multifattoriale, perché il reato in giovane età non è che il sintomo di un vuoto esistenziale e di un dolore intrapsichico con diverse radici: le alte aspettative prodotte dal mondo adulto e fabbricate dalla società della performance impongono modelli che costringono molti adolescenti a esibirsi dentro una realtà sempre più tecnocratica che perde interesse per la verità e che obbligano utilitaristicamente e unicamente a vivere di bisogni indotti. Per i ragazzi che incontro in carcere, anche l’amore è una performance come le altre, non è qualcosa di intimo e privato: «funziona» o «non funziona», come una tecnica. Ha ragione Hannah Arendt quando, in Vita activa, scrive che «l’amore, a differenza dell’amicizia, muore, o piuttosto si spegne nel momento in cui appare in pubblico». Esposti alla celebrità a tutti i costi, i ragazzi che incontro sembrano travolti dallo spaesamento di chi non appartiene più a nessuno, schiacciati sull’assoluto presente perché il futuro li terrorizza e lo avvertono come una promessa mancata: niente a cui attaccarsi, nessuna meta all’orizzonte. Manca lo scopo. Li accompagna un vortice di sentimenti difficilmente governabile, arrivando a commettere crimini sempre più gravi, dettati spesso da un’impulsività incontrollata. Criminalizzata, medicalizzata e incompresa, la generazione adolescenziale sembra crescere sempre più insicura e sola.

La parola stessa «futuro» inquieta e spesso scompare dal vocabolario dei ragazzi detenuti: «Per me non c’è futuro, vivo alla giornata; preferisco non pensare al domani, aspetto solo di uscire da qui». La rassegnazione non di rado sconfina in atteggiamenti di passività e di chiusura, «tanto non vale la pena impegnarsi adesso se non hai certezze future». La rassegnazione porta all’apatia e l’apatia può generare stati d’ansia e di depressione pericolosi: gli atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio e i suicidi in carcere, purtroppo, sono ormai una triste realtà in Italia. È proprio l’imprevedibilità con cui si guarda all’avvenire che determina quel pessimismo esistenziale così devastante nella vita dei più giovani. È l’epoca in cui è scomparso il congiuntivo, quello che nei miei studi adolescenziali veniva chiamato «desiderativo», «ottativo»: i ragazzi del nostro tempo fanno fatica a coniugarsi e a pensarsi dentro un orizzonte di desideri raggiungibili. Lo slogan «Andrà tutto bene» che ha attraversato diffusamente il tempo pandemico cercando di rassicurare un po’ tutti, è risultato essere per questi ragazzi un’affermazione di ingenuo e ridicolo ottimismo, una «frase fatta per tenerci buoni», una formula puerile e retorica completamente distaccata dalla crudezza di giorni angoscianti: non è un ambiguo ottimismo a tenere lontano i nostri adolescenti dalla paura del dolore e della morte.

In comunità, organizziamo una testimonianza teatrale che portiamo nelle sale di tutta Italia: un’ora e mezza di racconti, canzoni, video in cui i nostri adolescenti «cattivi» si narrano.

In una di queste serate, Mario si esprime con queste parole:  «Sento ansia, rabbia, incertezza, paura, insicurezza. Giorno dopo giorno cerco un motivo per non mollare. Fumo una sigaretta, poi due, poi tre: il fumo negli occhi mi acceca la vista e la prospettiva per il futuro. Poi, una domanda comincia a girarmi in testa: come ci sono arrivato qui? Provo a ripercorrere la mia vita mentre noto lo sguardo di un passante che mi perfora e sembra dire: “Guardalo! Lui è un perdente; lui non farà nulla di buono nella vita; lui è un delinquente, un criminale”. Accendo un’altra sigaretta, mentre un urlo rabbioso mi sale dal profondo dello stomaco. Lo trattengo e continuo a camminare. Il viso di mia mamma mi appare dal nulla e mi chiedo perché mi abbia adottato. Mi domando come mai abbia insistito così tanto. Non capisco perché volesse investire tutto su un bambino cresciuto in strada. Non trovo nessuna risposta. Forse perché non gliel’ho mai chiesto, forse perché non ho mai parlato davvero con lei, così come non l’ho mai fatto con papà. Sì, forse è questo il problema: non ho mai parlato con loro, non mi sono mai confrontato, non ho mai fatto una domanda. Facevo finta che andasse tutto bene, facevo finta di accettare le loro regole… Facevo finta. Fingevo e basta. Ma qualcuno lo fa? Qualcuno dialoga davvero con i propri genitori? Voi, ragazzi e ragazze che siete in questa sala stasera, non fate il mio, il nostro stesso errore. Qualcuno di noi non ha avuto la possibilità di parlare con i propri genitori, ritrovandosi a dover stare per strada, perché i genitori non li ha semplicemente avuti. Ma voi, fatelo! Dite ai vostri, anche incazzati: “Ho bisogno di parlare con voi, non mi va bene questo e quest’altro…”. E voi adulti, cercate sempre di attribuire la giusta importanza alle parole dei vostri ragazzi; imparate a guardarci negli occhi e a leggere le nostre emozioni. Fatelo, perché molti di noi non possono più farlo”».

Parole forti di un giovane paralizzato, come tanti suoi coetanei, dal non senso e da domande mai poste prima; espressioni di chi teme di essere criminalizzato a vita, nel terrore di essere un perdente. Eppure, come scrive Victor Hugo, «Ciascuno nella sua notte va verso la sua luce»: nonostante il vuoto ideale ed emotivo, l’incertezza del futuro, la terra sconosciuta su cui si cammina, tutti i ragazzi cercano il proprio destino di gloria. Lo inseguono con tutte le loro forze, ma non sanno come lo si raggiunga. Si perdono, cadono, si fanno male, ma continuano a camminare in attesa che qualcuno li aiuti a orientarsi. L’emergenza educativa, in prospettiva cristiana, è pur sempre sintomo di speranza: nel rendersi visibile in tutta la sua cruda interezza, la realtà può diventare la migliore maestra della vita se accompagnata da parole non convenzionali e retoriche che non aggiungano niente alla narrazione superficiale dei ragazzi, ma da parole capaci di risvegliare un cammino inatteso e di accendere una coscienza nuova.

Se c’è una banalità del male che ha segnato tristemente giorni non lontani, temo possa esserci anche una banalità del bene quando l’adulto trasmette ciò che non vive. Un cristianesimo che ripropone stancamente discorsi poco fondati sull’esperienza di chi li comunica ha sempre meno attrattiva e non genera una speranza affidabile: un Dio che non tocca anche le ferite è per molti giovani un dio inutile. Il sacramento della riconciliazione in carcere è l’intimo colloquio penitenziale di ragazzi che nel dolore consegnano a Dio le ferite inferte a loro stessi e alle vittime dei loro reati. Così, la luce ritorna e vince l’opacità di una fede mortifera, dettata più da convenzione che da convinzione. In un carcere minorile la speranza si riaccende quando il ragazzo detenuto comincia a comprendere che, per riemergere dalle ferite inferte e subite e dal non-senso dei propri errori, non può farcela da solo: occorre l’incontro con chi ti invita a guardare la vita in un’altra prospettiva. Tempo fa in carcere, Niccolò – un sedicenne arrestato per spaccio – un giorno mi dice: «Don Claudio, è inutile che ti sbatti per me, tanto io sono un tossico!». «Non mi dire così Niccolò!», provo a ribattergli. «Tu non sei un tossico; sei un ragazzo che ha usato sostanze stupefacenti». Immediatamente, Niccolò mi risponde, quasi infastidito: «Che differenza fa? Non capisco!». Provo a spiegargli che non «è» un tossico, perché non coincide con il suo problema di consumo e, per quanto faccia uso di droghe, rimane innanzitutto un ragazzo. Niccolò mi congeda e mi manifesta la sua incomprensione: «Boh, continuo a non capire. Rimango sempre un tossico!». Passano due settimane; incontro nuovamente Niccolò e sento che un altro ragazzo lo chiama dalla cella: «Oh, sfigato!». Niccolò si gira e con un sorriso appena accennato risponde davanti a me: «Non sono sfigato! Sono un ragazzo che ha sfiga!».

Perché rinasca speranza, occorre offrire ai ragazzi una visione nuova: come Niccolò, ogni adolescente in carcere deve essere accompagnato a comprendere che non coincide con il male che ha prodotto. Non si tratta di legittimare o giustificare le condotte violente e trasgressive: un inutile buonismo non sarebbe rispettoso delle vittime dei reati, ma nemmeno dei ragazzi che il male lo commettono. Si tratta, piuttosto, di ridare un volto anche a chi sbaglia, accogliendo la sua irripetibile umanità e la sacralità della sua storia, perché anche una storia sbagliata fa pur sempre parte della storia di salvezza.

Come avviene il risveglio di una coscienza in carcere? Un detto ebraico narra che in principio Dio creò il punto di domanda e lo depose nel cuore dell’uomo: la domanda inquieta disarma, ma apre anche a un dialogo libero dall’esito. La pedagogia della domanda è il metodo che Gesù ha usato per risvegliare la coscienza credente dei suoi discepoli e donare loro speranza: i quattro vangeli riportano circa duecentoventi interrogativi rivolti ai discepoli, ai malati, agli stranieri, agli amici e agli avversari. Mentre le affermazioni definiscono, le domande aprono e rilanciano il dialogo anche con ragazzi molto chiusi e bloccati dentro: parole troppo assertive non riscaldano il cuore e non danno alimento a un cammino di speranza. Le domande, invece, sono scintille che liberano dal vuoto interiore. Le domande vere permettono un lavoro di scavo dentro la coscienza che richiede a volte molto tempo: la speranza ha a che fare con la pazienza dell’attesa. Non è con la durezza della legge dei codici o con un atteggiamento sanzionatorio inflessibile che si aiuta un minorenne a fuoriuscire dal circuito penale: l’esercizio muscolare dell’autorità non fa da deterrente per scongiurare le condotte più trasgressive degli adolescenti. Non è rieditando il volto autoritario del padre, né con l’inasprimento delle norme e delle pene che è possibile contrastare i comportamenti problematici dei ragazzi. Come è accaduto ai discepoli di Emmaus, occorre, piuttosto, che qualcuno si faccia viandante e accompagni il cammino incerto di questi ragazzi: qualcuno disposto a camminare anche in assenza di una meta sicura, senza arrestare il passo nella rassegnazione e nella sfiducia. Un viandante che non riproponga nostalgicamente il ritorno al passato come via di guarigione, ma che guardi avanti, accolga la sfida di questo nostro tempo e si metta in cerca del senso, dando senso a tutto ciò che incontra sul suo cammino.

Ho imparato, in questi più di vent’anni a fianco degli adolescenti del carcere, che essenziale è rimanere in cammino e non porre ostacoli anche a ciò che è immediatamente difficile accettare. Vivere con questi ragazzi mi ha portato inevitabilmente a destrutturare le mie incrollabili certezze, non per abbandonarmi al loro stesso smarrimento ma per ridestare in me nuove domande di fede. La tentazione del muro di fronte al male sconvolgente di certi reati commessi è viva anche in me: non ci si abitua mai a dare la mano a un ragazzo che con quella mano ha ucciso.

Eppure, ho imparato la lezione di Daniel che, a 17 anni, ha rapinato una banca e oggi, dopo la laurea in scienze dell’educazione, è educatore: «Nella fede, come nella vita, non si cresce mai con chi ti assomiglia».

Così, mi lascio ispirare dallo sguardo differente di Gesù, che è sempre stato capace di recuperare la profondità delle persone incontrate: penso a Zaccheo, all’adultera e a tutte le persone recuperate da quello sguardo che non ha mai avuto il sapore della condanna definitiva e che ha saputo generare cammini di liberazione e di speranza. La vita di questi adolescenti è ancora un’opera d’arte: i loro passi incerti, le loro storie imperfette, il «mostruoso» che abita le loro condotte, le loro lotte disperate per stare al mondo sono l’espressione di una bellezza informe a cui dobbiamo avere il coraggio di guardare. In un tempo che cerca di censurare ogni forma di vulnerabilità e di imperfezione, in una cultura che a volte sembra avere bisogno del «mostro» in cella per affermare la bontà di chi non sbaglia mai, non c’è spazio per questi ragazzi.

La mostruosità del carcere con le sue porte blindate, le volte cieche, gli snodi labirintici, la sua trascuratezza, il suo sovraffollamento, può insinuare in questi adolescenti la convinzione che si possa rinascere? Davvero la sanzione penale è in grado di rieducare nell’aberrazione di un sistema che tollera gli «schiaffi punitivi»? La recente «Riforma Cartabia» è un segno di speranza ed è un primo passo importante perché nel nostro paese si inauguri il superamento di un modello penale-carcerario che ha fatto il suo tempo, e perché nasca un nuovo paradigma di giustizia più basato sulle forme concrete della rieducazione e del reinserimento sociale.

La giustizia riparativa è una strada percorribile ed è un segno di speranza: essa ha anche a che fare con la possibilità della riconciliazione tra la parte offesa e l’autore del reato. Il perdono non è esigibile, perché ha a che fare con la libertà delle persone, ma è un cammino che genera speranza in tutta la collettività.

La storia non si può riscrivere, ma si può ri-significare, e, perché questo avvenga, occorre la pienezza del ricordo: il perdono non è l’oblio, non è dimenticare, ma è un atto libero e gratuito, il cui esito è imponderabile, ma garantisce alla persona di non rimanere schiacciata dalla tragicità degli eventi. Se i fatti del passato rimangono incancellabili – come ci ricorda Ricoeur –, tuttavia «il senso di quello che ci è successo non è fissato una volta per tutte… il lavoro della memoria ci mette sulla strada del perdono».

In un tempo in cui la categoria del perdono sembra essere stata rimossa e confinata a un ordine soltanto sovra-etico, ritengo fondamentale ritrovare le ragioni educative del perdono: la sua eclissi è sempre più evidente nelle aule dei tribunali, ma anche nei rapporti tra esseri umani. Una giustizia meramente retributiva e punitiva, così come rischia di essere concepita oggi, va lasciata alle nostre spalle: l’abbruttimento delle persone detenute è la logica conseguenza di un contesto regressivo e infernale qual è il carcere, divenuto nel suo volto iconico e simbolico, forma stessa del male.

È possibile andare oltre il dispositivo totale e totalitario del carcere se fuori c’è una comunità di persone mosse da sentimenti di evangelica prossimità, di autentica cittadinanza e pervase da quella che il cardinal Martini chiamava la «follia della carità».

Solo così si fonda la speranza, e quell’errare senza senso di molti adolescenti può trasformarsi in un «attraversamento» (del resto «Pasqua» significa letteralmente proprio questo).

Il mondo, visto dalla prospettiva di un carcere, è sintomo di speranza per chi non si arrende a uno sguardo miope.

Il mondo visto da qui è un tempo sospeso, interrotto e abitato da tanti giovani smarriti e pieni di paure; ma è anche «tempo favorevole», «momento giusto» per un cambio di paradigma nel modo di intendere la giustizia e la convivenza umana.

Tratto da Orientamenti Pastorali 11(2024), EDB. Tutti i diritti riservati