Erio Castellucci – arcivescovo-abate di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi

«Todos, todos, todos»: dall’incontro di papa Francesco con i giovani a Lisbona in occasione delle Giornate mondiali della gioventù 2023, questa parola ripetuta tre volte è già sufficiente a renderne lo spirito: «Amici, vorrei essere chiaro con voi, che siete allergici alle falsità e alle parole vuote: nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti. E questo Gesù lo dice chiaramente quando manda gli apostoli a invitare al banchetto di quell’uomo che lo aveva preparato, dice: “Andate e portate tutti, giovani e vecchi, sani e malati, giusti e peccatori: tutti, tutti, tutti”. Nella Chiesa c’è posto per tutti. “Padre, ma io sono un disgraziato…, sono una disgraziata, c’è posto per me?”. C’è posto per tutti! Tutti insieme, ognuno nella sua lingua, ripeta con me: “Tutti, tutti, tutti!”. Non si sente, ancora! “Tutti, tutti, tutti!”. E questa è la Chiesa, la madre di tutti. C’è posto per tutti. Il Signore non punta il dito, ma apre le sue braccia. Questo ci fa pensare: il Signore non sa fare questo [puntare il dito], ma sa fare questo [abbracciare], ci abbraccia tutti. Ce lo mostra Gesù in croce, che tanto ha aperto le sue braccia da essere crocifisso e morire per noi. Gesù non chiude mai la porta, mai, ma ti invita a entrare: “entra e vedi”. Gesù ti riceve, Gesù accoglie. In questi giorni ciascuno di noi trasmetta il linguaggio d’amore di Gesù: “Dio ti ama, Dio ti chiama”. Che bello che è questo! Dio mi ama, Dio mi chiama, vuole che io sia vicino a lui».[1] Come vanno intese le parole del Papa? C’è chi ha immediatamente gridato al relativismo, trovandovi conferma della propria opinione negativa nei confronti del suo magistero; c’è chi ha esultato dal fronte opposto, pensando che finalmente la Chiesa potesse legittimare indistintamente ogni azione e comportamento. Ma per comprenderne il senso, e per capire l’orizzonte del cammino sinodale delle chiese in Italia – missione nello stile della prossimità – è necessario recuperarne le radici.

  1. Persone e categorie

 Nello stile di Gesù c’è una costante, fastidiosa per tanti: il superamento delle categorie per arrivare al cuore delle persone. Zaccheo è segnato a dito dalla gente, come «capo dei pubblicani» e quindi traditore e sfruttatore del suo popolo, ma per Gesù «anch’egli è figlio di Abramo». La folla non comprende, continua a ragionare per categorie, e indirizza il proprio disappunto verso Gesù: «è andato ad alloggiare da un peccatore!» (cf. Lc 19,1-10). La classificazione dell’epoca non lasciava scampo: poveri, peccatori, malati, donne, schiavi, stranieri erano esclusi o emarginati dalla comunità ebraica: le categorie sembravano insuperabili e le persone vi rimanevano incasellate. Non era diversa la società ellenistica. I greci chiamavano «barbari» gli stranieri, consideravano la schiavitù un dato di natura e la donna inferiore all’uomo e priva di diritti sociali.

La prospettiva di Gesù viene tuttavia immediatamente raccolta dalle prime comunità cristiane, che praticano una fraternità e sororità in grado di superare, in linea di principio, la fissità di queste categorie. Scrive san Paolo verso la metà degli anni 50: «Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù. E, se siete di Cristo, siete dunque discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa».

Qui l’apostolo delle genti concentra la novità portata da Gesù con la sua predicazione, azione e persona: farci «uno» in lui, incarnare l’unità di Dio con l’uomo e degli uomini tra loro. In quella cultura contavano di più l’appartenenza etnico-religiosa (giudeo o greco e, più in generale, cittadino o straniero), la disparità sociale ed economica (schiavo o libero) e la distinzione sessuale (maschio o femmina), rispetto alla fondamentale appartenenza al genere umano. Di fronte a questi muri, i cristiani non si scoraggiarono e testimoniarono che «in Cristo» tutti siamo uno. Era una testimonianza prima dei fatti che delle parole: nelle case – dove allora si riunivano, non potendo costruire chiese e strutture, come avviene ancora oggi nelle tante situazioni di persecuzione religiosa – i battezzati cominciarono a definirsi tra di loro «fratelli» e «sorelle». Qui i cristiani si trovavano tutti «alla pari»: fossero di origine ebraica o pagana, schiavi o liberi, uomini o donne, tutti partecipavano al cammino catecumenale e alle catechesi, tutti potevano prendere parte alle celebrazioni liturgiche e tutti potevano ricevere la comunione alle medesime condizioni; tutti infine offrivano il loro contributo per progettare la vita missionaria e pastorale della comunità e per assistere i poveri e i malati.

Le distinzioni tra ebreo, greco, schiavo, libero, maschio e femmina vennero subordinate all’unità data dall’unico battesimo, aperto a tutti e non riservato solo ad alcuni: era dunque un vincolo, quello sacramentale, che non rinchiuse i battezzati in un ghetto elitario, ma anzi, li aprì ad accogliere tutti all’interno della comunità. Si potrebbe dire che questa fraternità/sororità «in entrata», attraverso il battesimo, è stata il germe di una fraternità/sororità «in uscita», aperta a tutte le genti. Fu in questa esperienza, fondata sull’abbattimento dei muri avviata da Gesù, che le prime comunità cristiane capirono meglio il significato della creazione, comprendendo che su ciascun essere umano è impressa l’immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27); e compresero meglio il significato della redenzione, per cui ogni essere umano, senza distinzione, è unito a Cristo e salvato da lui.

Così la Chiesa inserì nelle società antiche il valore della dignità della persona umana e la sua priorità rispetto a tutte le distinzioni di ruoli e condizioni: il primato del sostantivo rispetto all’aggettivo. Esseri umani, questa è l’unica, vera e grande categoria. «Figli di Abramo» o «discendenza di Abramo», direbbero Gesù e san Paolo, è la realtà di gran lunga più importante rispetto a ogni altra specificazione: malato o sano, vecchio o giovane, bello o brutto, ricco o povero, straniero o cittadino, credente o ateo, peccatore o santo, maschio o femmina, nobile o plebeo…

  1. Le preferenze di Gesù

Eppure, il Signore non metteva proprio tutti allo stesso livello; va detto sottovoce, ma va detto: faceva delle preferenze come gli altri. Solo che erano all’opposto degli altri. La sua predilezione andava verso quelli che non attiravano nessuno: proprio quei malati, poveri, stranieri, peccatori che venivano lasciati ai margini della società; proprio quelle donne e quei bambini che non erano considerati alla pari degli altri. Sono decine, nei vangeli, le testimonianze di questa strana simpatia di Gesù per gli ultimi.

Strana, certo, ma per lui fondata su una certezza: il regno di Dio si sta avvicinando (cf. Mc 1,15; Mt 4,17). La predicazione del regno è la sua idea fissa: per cento volte nei quattro vangeli Gesù parla del regno (di Dio, dei cieli), illustrandone tutte le sfumature. Non c’è alcun dubbio: il regno, per lui, è dei perdenti – i poveri appunto, poi gli afflitti, i perseguitati, gli affamati e assetati di giustizia – e di chi solidarizza con loro: i miti, i misericordiosi e gli operatori di pace (cf. Mt 5,1-12). E se nelle beatitudini Gesù lancia il suo manifesto programmatico, nel grande affresco del giudizio finale (cf. Mt 25,31-46), ne tira le somme: chiunque avrà assistito affamati, assetati, poveri, malati, stranieri e carcerati raccoglierà il frutto delle sue opere e sarà salvato; chi si sarà chiuso nel proprio guscio e avrà peccato di omissione, rifiutando l’ospitalità agli svantaggiati, resterà fuori dalla salvezza. Certo, le pecore e le capre non si divideranno probabilmente in modo verticale, ma ci saranno le une e le altre dentro al cuore di ciascuno: la severità del criterio è innegabile e rappresenta anche il termometro della missione ecclesiale.

Gesù, infatti, ha consegnato ai discepoli un mandato, subito dopo le beatitudini, e l’ha rinnovato, subito dopo la risurrezione. La mission è chiara: essere sale e luce (cf. Mt 5,13-16) per tutto il mondo, annunciando, battezzando, insegnando (cf. Mt 28,18-20). Queste parole racchiudono lo stile e l’ampiezza della missione della Chiesa. Lo stile è quello del sale e della luce, non quello delle armi e del potere. Sale e luce realizzano il loro servizio non attirando a sé, ma facendo risaltare altro: il sale deve sciogliersi nei cibi, per renderli saporiti; la luce deve illuminare gli oggetti e le persone, per renderli visibili. Chi ha fame non mangia il sale e chi vuole vederci non fissa il sole.

La Chiesa è solo «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, n. 1); essa non è il regno di Dio piantato sulla terra ma, «fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio» (LG 5). Il Concilio esprime così anche l’ampiezza della missione ecclesiale: annunciare a tutte le genti il regno.

  1. Prossimità come affiancamento

 Il motto del Giubileo in corso, «pellegrini di speranza», colloca la Chiesa nella giusta posizione. Papa Francesco non ha parlato dei cristiani come «fari di speranza» o «testimoni di speranza», per quanto siano immagini legittime ed eloquenti. Ha preferito offrire un’icona dinamica, esprimere la necessità che la Chiesa stessa annunci il vangelo della speranza camminando insieme alle sorelle e ai fratelli. È il superamento della visione statica di una Chiesa già arrivata al traguardo, in attesa di un mondo più o meno smarrito, che dovrebbe ammirarla e orientarsi.

Se la «cristianità», intesa come saldatura tra Chiesa e società, è tramontata in Italia – cosa della quale abbiamo preso atto – anche questa concezione va abbandonata; e ormai, di fatto, la portano avanti solo gli ultratradizionalisti, i quali poi solitamente si scagliano contro altri cattolici, quelli da loro ritenuti troppo blandi o relativisti. Queste posizioni sono forme di fuga dalla realtà di una cultura complessa e pluralista che, piaccia o meno, si mostra irreversibile. La tentazione di scappare potrebbe veicolarsi anche in un’altra forma, meno aggressiva e più spirituale: tirare i remi in barca, accontentarsi di vivere il vangelo in pochi, creare esperienze di nicchia in cui sia possibile sperimentare una vita cristiana autentica, magari in forma comunitaria, senza preoccuparsi di tutti gli altri.[2]

Se i fuggiaschi reagiscono cercando di restaurare forme passate di Chiesa o di costruire piccole isole felici, non manca chi teorizza un cristianesimo del vagabondaggio, dove ciò che conta è camminare, senza darsi tappe o punti d’arrivo. Mentre i cristiani fuggiaschi ricadevano in una visione statica o addirittura immobile, congedandosi dall’invito di Gesù a camminare per le strade del mondo offrendo a tutti il dono del vangelo, i cristiani errabondi ipotizzano un moto perpetuo, senza alcun punto fermo, sposando tutte le opinioni dei compagni di viaggio e venendo meno così all’altra grande esigenza missionaria: non solo dialogare o acconsentire, ma evangelizzare tutti.

Il pellegrinaggio differisce sostanzialmente dalla fuga, perché guarda avanti e fa leva su tutti gli altri pellegrini, e differisce sostanzialmente dal vagabondaggio, perché prevede tappe e meta. I pellegrini non sono degli «arrivati», ma sanno di essere essi stessi in cammino: condividono fatica, fame e sete, caldo e freddo, cadute e riprese. Questo è il posto della Chiesa nel percorso della vita, perché essa non è una comunità «accanto» al mondo, ma è semplicemente quella parte di mondo che guarda nella fede a Cristo come Salvatore (cf. LG 9), quell’insieme di uomini e donne che assumono come proprie «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’umanità di oggi, dei poveri specialmente e di tutti coloro che soffrono» (GS 1).

Papa Francesco, dunque, con l’immagine del pellegrinaggio, e con le metafore dinamiche spesso da lui usate (accompagnare, affiancare, uscire, ecc.) non fa che rilanciare il Concilio, tentando di «scomodare» i cristiani, mettendoli in gioco e accettando i rischi del cammino. Particolarmente ispirato è il passo di Evangelii gaudium 49: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)».[3]

Come tenere insieme uno stile mite (sale e luce), un cammino aperto a tutti e un annuncio esplicito del vangelo, secondo il mandato missionario di Gesù? Nella conferenza stampa durante il volo di ritorno da Lisbona, papa Francesco ha così risposto alla giornalista Anita Hirschbeck, che gli chiedeva come interpretare il suo «todos, todos, todos» alla luce del fatto che ad alcune categorie di persone sono preclusi i sacramenti: «Ognuno incontra Dio per la propria via, dentro la Chiesa, e la Chiesa è madre e guida ognuno per la sua strada. Per questo a me non piace dire: vengono tutti ma tu fai questo, tu quell’altro… Tutti. Poi, ognuno, nella preghiera, nel dialogo interiore, nel dialogo pastorale con gli agenti di pastorale, cerca il modo di andare avanti […]. E il Signore è chiaro: ammalati e sani, vecchi e giovani, brutti e belli, buoni e cattivi […]. La Chiesa è madre, riceve tutti, e ognuno fa la sua strada dentro la Chiesa, senza pubblicità, e questo è molto importante».[4]

 Tradurrei così: la porta d’ingresso dell’esperienza cristiana deve essere aperta a tutti e non costituire un ostacolo per nessuno. Poi, chi si mette in cammino, sarà affiancato e potrà fare i passi che può effettivamente compiere nella sua condizione, o che accetta di compiere, senza dover o poter necessariamente condividere l’intera vita sacramentale della Chiesa. Le esperienze di tante persone, maturate nelle comunità cristiane specialmente dopo che la Amoris laetitia ha aperto percorsi di accompagnamento, discernimento e integrazione per tante situazioni affettive ferite o incomplete, mostrano che è possibile. La missione della Chiesa ha il suo banco di prova nella prossimità a quelli che un tempo erano definiti «i lontani» e che, per vari motivi, si potrebbero definire «gli allontanati»: disagiati, poveri, persone disabili, persone omoaffettive, separati, divorziati e risposati civilmente…

Stiamo nuovamente dividendo in categorie, all’opposto di ciò che faceva Gesù? Certamente no: il rischio esiste, ma va scrupolosamente evitato. I gruppi che radunano le persone colpite da qualche marginalità sociale e/o ecclesiale non devono diventare ghetti, ma ponti per favorire un cammino di integrazione nella comunità cristiana, al livello possibile e praticabile. Le categorie sono utili per individuare un problema e scegliere una soluzione, ma poi vanno dimenticate, perché «todos, todos, todos» siamo figli di Abramo.

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 1/2(2025). EDB. Tutti i diritti riservati

 

 [1] Viaggio apostolico in Portogallo del santo padre Francesco: cerimonia di accoglienza («Parque Eduardo VII», Lisbona, 3 agosto 2023).

[2] Cf. R. Dreher, L’opzione Benedetto. Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano, ed. San Paolo, 2018.

[3] Papa Francesco, Evangelii gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (24 novembre 2013).

[4] Viaggio apostolico in Portogallo del santo padre Francesco: conferenza stampa durante il volo di ritorno (6 agosto 2023).