Pier Giuseppe Accornero – sacerdote, giornalista, scrittore

«Nascere ed essere cristiani in Terra Santa è una vocazione e una missione, non una maledizione o un capriccio del fato». È il destino e la spiritualità «del piccolo gregge di cristiani che significa non essere svantaggiati rispetto agli altri cristiani ma avere una responsabilità ancora maggiore di testimoniare la propria fede in Dio».

Chi parla, in un’intervista all’agenzia «Sir», è padre Francesco Patton, custode di Terra Santa, che nei giorni scorsi a Gerusalemme, ha accolto un gruppo di pellegrini italiani che pian piano stanno tornando in Terra Santa, grazie anche alla tenuta della tregua a Gaza e in Libano. Sono ancora lontani i grandi numeri dei pellegrinaggi. Nazareth, Betlemme e Gerusalemme sono i tre luoghi santi dove è possibile vivere l’esperienza dell’indulgenza giubilare. A questi si aggiunge il luogo del Battesimo di Gesù in Giordania con la recentissima chiesa appena aperta al culto dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Patton dice che i cristiani di Terra Santa sono da coinvolgere sempre più nei programmi pensati per i pellegrini. Non solo visite e preghiere ma anche incontri e condivisioni con i cristiani locali che vi abitano. Quella cristiana è una presenza molto importante, sostiene Patton: «Terra Santa, Libano, Siria, Egitto, Giordania sono tutti storicamente tormentati e funestati da conflitti che continuano, ma sono luoghi dove è importante essere presenti come cristiani perché è importante dare una testimonianza di vita pacifica e di educazione alla pace. Una missione che i frati della Custodia portano avanti da 800 anni», dai tempi di San Francesco d’Assisi. Negli anni e per colpa delle guerre le comunità cristiane sono calate. Molti sono emigrati e la presenza cristiana in questi Paesi, culla del cristianesimo, «è ridotta a un piccolo gregge». I giovani «ci chiedono “Perché dobbiamo rimanere? Che motivo c’è di restare qui dove la vita è diventata impossibile?’. Sono domande che ci ripetono ovunque, da Betlemme ad Aleppo, da Gerusalemme a Nazareth». «Dobbiamo essere sale e luce» dice il custode Patton, giunto alla fine del suo secondo mandato e prossimo a passare la staffetta al successore. Spiega al «Sir»: «La conseguenza di essere un piccolo gregge – come dice Gesù nel Vangelo – è quella di “non temere”, di essere “sale e luce” cercando di esprimere una forma di vita cristiana che sia significativa per gli altri». È quello che le Chiese locali, a partire dalla Custodia di Terra Santa e dal Patriarcato latino di Gerusalemme, fanno attraverso varie istituzioni e organismi, case, scuole, ospedali: «Una missione riconosciuta anche dai fedeli delle altre religioni. Ciò che facciamo, pensiamo alla formazione, all’educazione, all’istruzione, all’accoglienza, mira sempre a creare i presupposti per il dialogo, la convivenza e il rispetto delle diversità». Infatti le scuole e gli ospedali sono molto frequentati dai musulmani. Aggiunge: «Agire così ci offre la possibilità di lavorare insieme, non solo con cristiani di tutti i riti e confessioni, ma anche con musulmani ed ebrei. Non forziamo in nessun modo la conversione degli altri in senso religioso ma lavoriamo per una conversione culturale, per aiutare a passare da una cultura del non riuscire a stare insieme a quella dell’accettarsi reciprocamente». E confida la risposta dei giovani quando il custode chiede: «Secondo voi la vostra terra senza i cristiani sarebbe migliore o peggiore? Sarebbe peggiore».

Cita due esempi: quello della piccola comunità ecclesiale di Gaza, dove da 15 mesi si combatte una guerra tra Israele e Hamas con migliaia di morti e quello delle comunità dei villaggi cristiani dell’Oronte, nel Governatorato di Idlib (Siria), da dove sono arrivati i jihadisti, ex qaedisti, guidati da Al Jolani, che hanno abbattuto il regime di Bashar al Assad: «Piccole comunità, piene di fede e di speranza, che hanno saputo affrontare le gravi difficoltà poste dalla guerra. Molti sono andati via ma chi è rimasto ha sperimentato un forte senso di appartenenza comunitaria. «L’odio terribile che si è sprigionato dopo il 7 ottobre ha creato un solco molto profondo – conclude Patton – e per colmarlo ci vorranno generazioni, non certo pochi anni o qualche iniziativa di persone di buona volontà. Ci vorrà un cambio culturale e non so se la gente che vive qui sia disponibile a questo cambio».

Sull’altra sponda, quella teocratica dell’Iran, almeno 975 persone sono state giustiziate nel 2024 con uno «spaventosa aumento» dell’uso della pena di morte come mezzo di «repressione politica» da parte della Repubblica islamica. Lo denunciano due Ong ed è ripreso dalla «France Presse». Secondo l’organizzazione iraniana «Iran human rights», con sede in Norvegia, e l’Ong francese «Ensemble contre la peine de mort» questa cifra «estremamente scioccante, la più alta dall’inizio del censimento nel 2008, è probabilmente sottostimata, poiché la stragrande maggioranza (90 per cento) delle esecuzioni non viene resa pubblica».